domenica 17 novembre 2013

La conurbazione Pesaro-Fano

i sistemi insediativi paralleli di Pesaro e Fano
Nella serialità delle valli marchigiane, che si susseguono trasversalmente alla costa, già a partire dalla struttura insediativa romana si nota la presenza di centri urbani costieri e di centri di media valle, posti nel luogo in cui la vallata tende a restringersi. Questo schema tuttavia non da luogo a similitudini così nette. Jesi, ad esempio appare spostata più verso il mare ed è sostituita da Planina (oggi Pianello-Moie) all'interno, anche le valli del Chienti e del Potenza presentavano due centri intervallivi che nel tempo però si sono ridotti ai soli centri interni di Tolentino e San Severino.

Nel nord delle Marche anche nelle valli del Foglia e del Metauro gli insediamenti erano dislocati in modo differente. Pesaro non aveva in pratica centri vallivi consistenti nell’entroterra, mentre Fano poteva contare su Forum sempronii, Pergola e Cagli.
Negli ultimi 50 anni tuttavia i processi insediativi di fondovalle e della costa hanno mutato profondamente la geografia dei luoghi dando vita ad una strutturazione urbana affatto nuova, talmente simile nelle due valli da evidenziare una sorta di “simmetria”.



Pesaro 2
Alle spalle dell’insediamento urbano di Pesaro (94.623 ab.) e dell’area industriale, si è formato un agglomerato di centri vallivi collegati con i rispettivi centri storici di origine. S.Angelo in Lizzola, Montelabbate, Colbordolo, danno logo a una entità di 21650 abitanti con adeguata dotazione di servizi ma priva di una organizzazione che la configuri come una “città” e di un disegno che ne definisca l’identità.


In modo del tutto analogo, nell’entroterra di Fano (63.009 ab.), incontriamo i comuni di Saltara, Montemaggiore e Cartoceto. Un agglomerato di 15666 abitanti.

schema strutturale Pesaro 2
Fano 2
Queste due nuove nebulose insediative sono collocate alla medesima distanza dal mare, in corrispondenza della formazione collinare su cui sorgono, collegati da una delle poche trasversali intervallive, una serie di centri storici (S.Angelo, Monteciccardo, Mombaroccio, Cartoceto, Saltara).


schema strutturale Fano 2

Riconosciamo infatti, accanto alla sequenza degli insediamenti vallivi, un’analoga sequenza nella strutturazione insediativa e nel paesaggio del settore intervallivo:  le verdi colline boscate costellate di centri storici di poggio, una fascia di paesaggio agricolo più spoglio e sostanzialmente privo di insediamenti, la parte costiera, più ricca di elementi diffusi del paesaggio e di borghi che termina con la falesia a mare.
La valle dell’Arzilla taglia diagonalmente questo andamento per fasce parallele alla costa e individua alcuni fulcri di estremo interesse dal punto di vista turistico che sono complementari all’offerta balneare anche per la loro accessibilità sia dalla costa che dai centri di Pesaro e Fano.  Il centro storico di Novilara, uno dei più belli della regione, posto all’apice della valle che interrompe la falesia costiera, e le terme di Carignano, postein prossimità di un’area SIC e virtualmente raggiungibili in bicicletta dalla spiaggia di Fano e dal centro storico.

La fascia verde delle colline costiere e della falesia costituiscono in verità un elemento di unione, più che di separazione, tra Pesaro e Fano. Un grande parco territoriale che costituisce il cuore di una città doppia.
In altri termini il sistema policentrico urbano che comprende Pesaro, Fano e i nuovi agglomerati vallivi mostra un disegno estremamente interessante anche perché può essere letto in diverse modalità e dare vita a diverse strutturazioni tutte aderenti alla medesima realtà: possiamo intenderla come un’unica città-territorio formata dalle direttrici vallive e dai collegamenti trasversali tra i nuclei più densi, che legano territori abitati intimamente legati alle rispettive coppie vallive; oppure possiamo interpretarla come una coppia di città, ponendo in evidenza le sole dinamiche di fondovalle; o ancora un sistema di quattro vertici urbani, limitandosi a riconoscere i due nuovi centri urbani composti di porzioni tenute assieme dalla presenza del corridoio fluviale che assume così la fisionomia di parco urbano e “cuore verde” della nuova forma di città.

E’ in fondo questa possibilità di leggere la città a diverse scale senza che venga meno il riconoscimento di un medesimo telaio, di uno stesso “esserci” nel territorio, una caratteristica peculiare ed innovativa delle nuove città delle Marche.

venerdì 1 novembre 2013

Per una nuova geografia delle Marche

Le Marche sono descritte come la regione delle cento città, terra dei tanti campanili dove ogni piccolo paese conserva fieramente la propria identità e si presenta, storicamente, come una realtà pressoché autosufficiente con i propri servizi essenziali, i piccoli teatri, i campi sportivi, la chiesa, la scuola…
E’ questa ancora l’immagine della geografia che applichiamo alle Marche e che riproponiamo negli spot turistici così come nelle relazioni sull’andamento socio-economico regionale .
E’ questa ancora la struttura amministrativa: 239 municipi per una popolazione complessiva di 1.541.692 abitanti  (al 30 /10/12), con una dimensione media per comune di 6450 abitanti, dai 100.343 di Ancona ai 128 abitanti di Acquacanina (MC).
Una struttura insediativa, gerarchicamente ordinata, derivata dallo Stato Pontificio, rimasta la stessa con l’unità d’Italia e negli anni dell’industrializzazione. E’ a quella struttura insediativa che ci riferiamo ancora parlando delle Marche.


Eppure la geografia reale della nostra regione è profondamente cambiata, specie negli ultimi 50 anni e non tanto per l’ammodernamento delle rete infrastrutturali, che anzi non altera sostanzialmente l’intelaiatura esistente, fondata sul pettine formato dalla direttrice adriatica e dalle penetrazioni vallive, essendo intervenuto soltanto sulla “portata” dei singoli assi strutturali. Ciò che è mutato radicalmente, tanto da definire una geografia davvero nuova rispetto a quella a cui ancora ci riferiamo è la forma e l’organizzazione dello spazio urbano.
Non è soltanto un fenomeno dovuto all’estensione della superficie urbanizzata ad una scala territoriale, come alcuni studi hanno già sottolineato, in quanto per molti versi nelle Marche si era già storicamente affermata una fisionomia da “città-territorio”.  Né si può riferire ancora il fenomeno al concetto generale di sprawling urbano che interessa, seppur con diverse modalità, tutti quei territori che hanno assistito ad una rapida industrializzazione negli ultimi decenni del ‘900.   Si tratta in modo più peculiare di una evoluzione dello sprawling che ha addensato in alcuni ambiti territoriali dei sistemi urbani complessi attorno alle relazioni particolarmente intense formatesi tra città contigue. Queste nuove configurazioni, definite dagli urbanisti più rigorosi come “sistemi policentrici urbani”, sono in continua evoluzione, ma costituiscono già da tempo la nostra realtà consolidata.
Sebbene si siano formati a partire dalla dimensione della “rete” insediativa e del “sistema territoriale”, questi addensamenti, caratterizzati da una spiccata specializzazione funzionale per zone, hanno iniziato a definire vere e proprie “configurazioni” urbane. Stanno dando vita cioè a vere e proprie nuove città con una loro “forma” specifica.
Non si tratta certo della forma urbana geometricamente definita sulla separazione netta tra città e non città, poiché sempre di moderno fenomeno di città-territorio stiamo parlando, ma la particolarità con cui il sistema insediativo si organizza sulla morfologia territoriale, entra in relazione con gli elementi fisici del paesaggio, colloca e organizza i grandi parchi territoriali rispetto alle aree insediative e produttive, distribuisce le dinamiche interne ed i flussi anche con nuove reti di mobilità, tutte queste modalità assumono una “forma” ed un “disegno” indipendentemente dal fatto che noi ne abbiamo o meno consapevolezza.
Se poi iniziassimo ad esaminare i flussi e le dinamiche socio-economiche nel loro disporsi sul territorio ci accorgeremmo che queste nuovi complessi urbani “funzionano” anche come tali. E questo nonostante la nostra vecchia visione geografica continui ad imporre logiche diverse, a partire dall'organizzazione amministrativa, alla gestione dei servizi e della programmazione.

Perché la questione della geografia delle Marche deve essere ritenuta importante? Perché non può essere ridotta ad una stucchevole esercitazione accademica da architetti dalla mentalità vecchia e superata che ancora cercano di predicare l’importanza della pianificazione nell’epoca della deregulation?   Semplicemente perché la capacità di sopravvivenza di una civiltà sta proprio nella sua capacità di vedere la realtà che ha di fronte e stabilire con essa e per mezzo di essa rapporti chiari. Perché la mutazione socio-economica che stiamo affrontando ci impone una riorganizzazione della struttura sociale e amministrativa e per far questo occorre partire dalla realtà.

Da tempo si discute attorno al superamento della dimensione provinciale e comunale verso una nuova entità amministrativa di “area vasta”, di scala intercomunale, in modo da ridurre l’organizzazione amministrativa del territorio in due livelli: regionale e, appunto,  di area vasta. Si tratta di questioni riconosciute come afferenti alle dinamiche economico-organizzative dettate dalla necessità di ridurre la spesa pubblica e di snellire gli iter burocratici. Una questione che si “cala” sul territorio anziché partire dal territorio.
Che cos’è infatti questa area vasta, come possiamo individuare i comuni che ne faranno parte, nessuno lo sa. In nome dell’area vasta assistiamo a fusioni volontarie di comuni, sempre dettate da motivi di risparmio nella spesa e/o efficienza nei servizi, che avvengono per vicinanza politica tra questo e quel sindaco e per complessi di convenienze locali.
In altri termini le entità geografico-amministrative su cui si dovrà fondare la nuova struttura sociale sembra debbano essere “create” , inventate a partire da motivi che nulla hanno a che fare con la realtà ma che hanno a che fare soltanto con ragioni di opportunità.

Se tuttavia guardiamo alla realtà della nuova geografia delle Marche ci accorgiamo che gli ambiti intercomunali, i sistemi policentrici, esistono già e vanno semplicemente “riconosciuti”. E che partire da quel riconoscimento, fondando su di esso la riorganizzazione del paese, è determinante per stabilire il senso di questa riorganizzazione e sulla capacità che essa avrà di determinare un rinnovamento “reale” della società.
In altri termini il modo con cui affronteremo la questione dell’ “area vasta” sarà decisivo rispetto al cambiamento che ci si propone di indurre nella struttura socio-economica della nostra regione. Se guarderà ad un territorio immaginario non sarà che un cambiamento a parole. Se guarderà al territorio reale sarà un cambiamento reale in grado di incidere, anche solo potenzialmente, sul nostro futuro.
 
la divisione amministrativa della provincia di Fermo
Purtroppo nella nuova legge urbanistica regionale, prodotta dalla giunta regionale, non c’è traccia di una riflessione su questa tematica, che pure è essenzialmente urbanistica.
E invece è proprio la discussione attorno alla riorganizzazione del sistema della pianificazione l’occasione vera per prendere atto della nuova geografia marchigiana e fondare su quella la ristrutturazione del sistema amministrativo e del welfare, facendo coincidere gli ambiti d’area vasta con le unità di base del sistema sanitario ed assistenziale, dell’istruzione, dei servizi a rete, del recupero,dell’energia….

evidente la non corrispondenza della "geografia politica" rispetto
alla geografia reale del sistema insediativo nell'area del fermano












Un'occasione irripetibile, se vogliamo davvero semplificare e rendere più efficiente la macchina pubblica, se vogliamo davvero innovare il Paese, se vogliamo davvero cambiare nell’interesse delle Marche e della sua gente.

Inizieremo su Ippòdamo una lettura sintetica delle nuove configurazioni urbane delle Marche a partire, per il momento, dagli aspetti morfologico-distributivi delle nuove realtà insediative.

venerdì 27 settembre 2013

e si guarda ancora a città e territori lontani dalla realtà

Sembra che al momento siano sostanzialmente due le proposte di revisione della legge urbanistica regionale, avanzate una dalla Giunta regionale e una dal Forum dei movimenti per la terra e il paesaggio delle marche (sarei lieto se qualcuno spiegasse la necessità di questa distinzione terra-paesaggio) .
Entrambe le proposte, al di là degli aspetti positivi che comunque portano rispetto all'attuale testo di legge, sembrano non sapere o non volere cogliere fino in fondo l’opportunità di una profonda riflessione sul senso e sugli obiettivi del fare urbanistica in una realtà radicalmente mutata sotto l’effetto della crisi economica e della sempre più diffusa consapevolezza ecologica nella società civile.
La minore esigenza di nuova edificazione e la centralità del tema del recupero, l’urgenza di una riqualificazione ambientale che porti ad un generale miglioramento delle condizioni di vita nelle città, le esigenze di risparmio energetico e di limitazione riduzione dei costi nell’edilizia, la spinta verso un rilancio del trasporto pubblico, l’opportunità di un ritorno ad un protagonismo dell’autorità pubblica nella pianificazione territoriale, la necessità di dimagrimento della burocrazia e della stratificazione dei livelli amministrativi, la tangibile trasformazione degli assetti urbani nella regione che impone una accurata analisi dell’attuale architettura insediativa e della dinamica dei flussi funzionali, sembrano toccare soltanto marginalmente i due testi di legge proposti.

La complessità del compito che attende gli urbanisti nella riscrittura della pianificazione regionale alla luce delle trasformazioni attuate ed in corso di attuazione appare tanto più ingente quanto ampia appare la distanza con l’atteggiamento che sta alla base dei due testi di legge proposti, ripiegati su una tediosa gerarchiazzazione e composizione dei livelli amministrativi, su infiniti passaggi istituzionali, che tuttavia – implicitamente - lasciano l’iniziativa del disegno del territorio agli interessi privati, fondati ancora sulla speculazione immobiliare.

Per affrontare questa complessità è utile articolare la questione urbanistica in tre livelli riferibili,in sintesi, alla struttura, alla titolarità, ed alle pratiche della pianificazione territoriale oggi.

1.

L’ordinamento dell’attività di panificazione del territorio è oggi strutturato sul modello deduttivo, di chiara derivazione positivista, che procede dal generale al particolare, quindi dalla scala Regionale a quella Provinciale e Comunale. Le due proposte di legge non modificano questo modello, aggiungendo semplicemente il livello “intercomunale” tra quello provinciale e comunale.
Questa nuova dimensione intercomunale appare sostanzialmente un ulteriore stadio amministrativo senza precisi riferimenti al riconoscimento della mutata configurazione dei sistemi insediativi. Non è chiarito chi e in base a che cosa arrivi a definire gli ambiti intercomunali. Non è parimenti definito come possa inserirsi un reale processo partecipativo – elemento innovativo davvero necessario nella nuova pianificazione – se la dimensione locale appare addirittura depotenziata e sottomessa alla nuova scala intercomunale.
Il cambiamento dei contenuti e dei modi della pianificazione deve potersi esprimere innanzi tutto come cambiamento culturale e di pensiero.
Il processo deduttivo-positivo va quindi sostituito da un processo basato sul concetto di dialogo e solidarietà. Un processo che invece che scendere dall’alto al basso, riesca a svilupparsi contemporaneamente dall’alto e dal basso per definirsi al centro, che in luogo della sequenza ante-post si esprima come continuo confronto dialogico analisi-decisione-verifica.

Pensiamo che a livello regionale si debba esprimere un solo atto di pianificazione, comprensivo di tutte le tematiche specialistiche e continuamente in evoluzione in quanto sensibile ai mutamenti delle condizioni globali e alle sollecitazioni provenienti dai territori.
Pensiamo che a livello comunale debba esprimersi il processo partecipativo attraverso il riconoscimento del valore collettivo dei luoghi. Un percorso educativo ed espressivo rivolto a chi abita il territorio che sappia fornire elementi conoscitivi generali sulla realtà regionale, sulla storia e sui processi di formazione degli assetti attuali, che manifesti, attraverso lo statuto dei luoghi, anche la dimensione affettiva di una comunità civile verso la “sua” terra, ed attraverso questa delinei l’aspettativa per una realtà futura.

Questi due cammini, diversi nel modo di osservare e nei linguaggi utilizzati, devono poter trovare una sintesi a livello intercomunale. Un livello, quello intercomunale, che non è una “fase aggiuntiva” nel processo di pianificazione, ma rappresenta davvero l’unità territoriale di base.
Questi ambiti “conformi” nello scenario territoriale regionale devono essere riconosciuti attraverso una accurata analisi delle unità di paesaggio, delle reti, dei sistemi insediativi complessi, delle strutture funzionali. Questo riconoscimento deve avvenire all’interno ed all’inizio del processo di formazione dello strumento urbanistico regionale. Deve riverberare nelle discussioni attorno agli statuti dei luoghi ed anche da queste assumere elementi per definire ambiti che quasi mai possiamo considerare come “perimetri chiusi” ma semmai come gangli di un sistema nervoso diffuso e ramificato ,o meglio, di più sistemi a rete sovrapposti e correlati.
Questo aspetto è di grande importanza per evitare di riprodurre uno “zoning” che apparirebbe una grottesca trasposizione di una visione funzionalista del territorio assai distante da una cultura, quella odierna, che dovrebbe ormai aver fatto propri i principi dell’ecologia.

Lo studio per l’individuazione degli ambiti territoriali - siano essi sistemi policentrici urbani, che tessuti insediativi diffusi di tipo rurale – è di estrema attualità ed andrebbe posto alla base di una nuova stagione di dibattito urbanistico nella regione.

2.

La titolarità della pianificazione ormai da anni è solo apparentemente nelle mani della pubblica amministrazione. In realtà l’iniziativa urbanistica è svolta quasi essenzialmente dai soggetti privati sotto la spinta degli interessi immobiliari. La mancanza di fondi pubblici ma soprattutto la deriva neoliberista della politica italiana hanno trasformato la parte pubblica da “controparte” dei privati che agisce nell’interesse della collettività a “socia in affari” dei soggetti privati con la preponderante finalità di dividersi con questi i proventi dell’attività edilizia per chiudere il bilancio comunale in pareggio.
Oltre che profondamente deviato, questo atteggiamento è fallimentare sul piano finanziario ed ormai estraneo alle mutate condizioni socio-economiche nella crisi di sistema che stiamo attraversando.
La crisi ha portato ad una stagnazione del mercato della nuova edificazione. Il problema oggi non è governare le pressioni dei soggetti interessati a compiere trasformazioni del territorio, ma è individuare soggetti interessati a fare investimenti in una situazione in cui a fronte di una enorme disponibilità di invenduto e dimesso è venuto meno l’interesse economico nelle costruzioni.
Occorre quindi che il soggetto pubblico introduca nel territorio una capacità di visione, un dinamismo ed una progettualità capaci di far apparire appetibile un territorio altrimenti destinato all’abbandono. Gli strumenti per far questo sono quelli propri della pianificazione urbanistica e della progettazione architettonica, le uniche discipline che possiedono (o meglio dovrebbero possedere) la naturale attitudine di affrontare la questione territoriale non in termini monetari, ma in termini di relazioni virtuose, di valori aggiunti, di progresso e di bellezza.

Ci troveremo ad affrontare situazioni in cui ci saranno ben pochi interventi di trasformazione, per lo più rivolti al recupero dell’esistente.
Situazioni complesse, con proprietà spesso frazionate, destinate - se vincolate ad una accordo di tutti i soggetti coinvolti - a bloccarsi con estrema facilità e dare luogo a infiniti contenziosi.
Per gestire questi progetti complessi è auspicabile il ritorno allo strumento dell’esproprio ed al coinvolgimento  dei soggetti privati in una dimensione societaria. La Società di trasformazione urbana può divenire, se gestita in modo adeguato, lo strumento attuativo più efficiente e che può garantire il pieno controllo pubblico della qualità dell’intervento.
In molti casi è prevedibile che l’intero piano regolatore, nella dimensione comunale, possa essere gestito attraverso STU. La generalizzazione della procedura di esproprio nei processi di trasformazione del territorio potrebbe portare al tramonto della speculazione fondiaria, che sta alla base della devastazione operata negli ultimi 50 anni di delirio urbanistico.

Ma la dimensione propria del PRG non è quella comunale, bensì quella dell’ambito intercomunale che è destinato a diventare anche ambito ottimale per l’organizzazione del sistema socio-assistenziale, per quello scolastico, per la gestione dei rifiuti e dei servizi a rete.
Ai sindaci dei comuni, dopo l’iniziale presa di coscienza attraverso lo statuto dei luoghi, resta il compito di attuare le previsioni del PRG attraverso il piano operativo, nell’attesa di una ricomposizione del sistema amministrativo su base regionale che, con l’affermazione della dimensione  intercomunale, porti progressivamente alla scomparsa delle province e dei piccoli comuni stessi.

Se i soggetti base della gestione del territorio sono quindi la Regione e gli ambiti intercomunali, una delle prime cose da attivare - una volta riconosciuti gli ambiti – sarà un sistema di monitoraggio e di ri-valutazione costante che faccia capo questi due soggetti.
Pensiamo da un lato ad un osservatorio regionale in relazione permanente con degli uffici di piano collocati in ciascun ambito intercomunale. Una struttura tecnica che dovrebbe assomigliare più ad un centro studi che ad un apparato amministrativo, collegato ai dipartimenti universitari ed agli altri centri di elaborazione presenti sul territorio. Una struttura che sappia trasmettere alla politica informazioni adeguate per metterla in grado di assumere decisioni basate sul quadro reale della situazione.

E’ questo centro studi che, interagendo anche con la dimensione locale, definisce ed aggiorna le strategie ponendole al vaglio della politica, a partire da orizzonti da questa delineati.
Ciò permette di sostituire l’idea di un controllo legislativo – fatto con vincoli, direttive, parametri e standard numerici – con un controllo tecnico-disciplinare operato in relazione alle diverse situazioni in essere.
Il principio dello stop al consumo del territorio, ad esempio, resta sempre valido in quanto principio, ma può assumere contorni di ottusità se rapportato, ad esempio, ad una realtà urbana addensata ed ai limiti del collasso ambientale, laddove invece la visone di un riassetto complessivo del sistema potrebbe dar luogo, attraverso operazioni di diradamento e limitate occupazioni di suolo, ad una configurazione assai migliore rispetto alla precedente, sia in termini funzionali che sociali e ambientali.

3.

Le buone pratiche sono per certi versi una variabile indipendente nel quadro di un riassetto complessivo del sistema della pianificazione territoriale regionale, nel senso che non devono attendere necessariamente l’attuazione della nuova struttura organizzativa o dei nuovi Piani previsti, potendo fin d’ora – ove si creino le condizioni politiche – concretizzarsi in esperienze pilota e così illuminare la strada che porta all’affermazione di una nuova cultura del territorio.
Il censimento del patrimonio inutilizzato e degli edifici da recuperare, in ambito comunale, sarebbe un’iniziativa estremamente utile, così come la verifica dei costi reali delle nuove urbanizzazioni a confronto con gli introiti derivanti dagli oneri di urbanizzazione.
La sperimentazione di ambiti di recupero a basso costo, in autocostruzione, o di iniziative coordinate che attraverso la leva degli incentivi sappiano rendere appetibile l’abitare nei centri storici anche per le giovani coppie.
L’affermazione di reti di percorrenza ciclabile e l’individuazione di forme agili di trasporto pubblico e/o collettivo.
Queste, come altre che non stiamo qui ad elencare, sono tutte iniziative che non possono non far parte dell’agenda di chi, nell'amministrazione  della cosa pubblica, si propone di dare un segnale di svolta, di uscire dalla logica per cui senza soldi non si può fare nulla. Logica che dovrebbe portare chi la persegue a dare coerentemente le dimissioni per l’impossibilità di dare una prospettiva, un futuro alla comunità che amministra.

Ma accanto all’ambito locale preme sottolineare l’importanza di avviare fin d’ora una ricognizione sul paese reale, sulle Marche, dopo gli ultimi due lustri in cui si è perpetuato un saccheggio incondizionato.
Pensiamo ad esempio ad una perlustrazione dall’alto, ad una descrizione della regione utile anche ad una attività educativa nelle scuole. Primo, essenziale atto di un complesso percorso di risveglio partecipativo e culturale della popolazione.

Forse, accanto alla presa d’atto degli scempi compiuti e di quanto oramai è andato perduto, ci accorgeremo che le nuove configurazioni, i nuovi paesaggi pur derivati da quei traumatici processi, mostrano aspetti interessanti, talvolta anche affascinanti. E ci mostrano già la speranza, la possibilità di un prossimo riscatto.

lunedì 28 gennaio 2013

Nuove prospettive per il ritorno ad una vera pianificazione del territorio

Dopo anni in cui abbiamo assistito al progressivo abbandono, da parte delle istituzioni pubbliche, della progettazione dell'assetto del territorio, fino a giungere a forme di delega a soggetti privati - come nel caso del Piano di Area Vasta dell'operazione Quadrilatero - o alla pratica di far fare i piani particolareggiati di iniziativa pubblica e le stesse varianti urbanistiche ai soggetti privati proponenti per poi "decorare" i documenti col timbro ufficiale del Comune, finalmente ecco una sentenza del Consiglio di Stato che riafferma i principi costituzionali inerenti il governo del territorio. Principi costituzionali, aggiornati alle mutate concezioni culturali ed all'evoluzione socio-economica avvenuta in questi 60 anni, che sanciscono come il governo del terrtorio sia funzione pubblica non delegabile ad altri e come l'urbanistica non possa ridursi alle mere problematiche del dove e come costruire garantendo il diritto privato, ma debba gestire anche e soprattutto l'insieme degli aspetti ambientali, ecologici, paesaggistici, culturali e socioeconomici di un territorio.
Si tratta di un ponto di partenza formidabile per reimpostare la pianificazione urbanistica a livello comunale e intercomunale.

A proposito del PRG di Cortina, e precisamente alla scelta operata dal piano di escludere in via generale una nuova edificazione residenziale nel territorio comunale, salvo la circoscritta deroga per nuove edificazioni da eseguirsi sulle sole aree di proprietà comunale e regoliera e destinate ad abitazione per i residenti, così infatti si pronuncia il Consiglio di Stato con sentenza n. 2710/2012:

"Il Collegio osserva che il potere di pianificazione urbanistica del territorio – la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune – non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse. Al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico – sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare l’art. 117 della Costituzione per il tramite della legge cost. n. 3/2001, ha sostituito – al fine di individuare le materie rientranti nella potestà legislativa concorrente Stato - Regioni - il termine “urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di “governo del territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità di pianificazione che oggi devono ricomprendersi nel citato termine di “urbanistica”. D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative controversie), con l’art. 34, comma 2, d. lgs. 31 marzo 1998 n. 80, aveva affermato che “la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio”. Tali finalità, per così dire “più complessive” dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla legge 17 agosto 1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi” (art. 1), non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato, ma anche nello  “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica”. In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al iritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo.
 Uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli - non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi –, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico – sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta - per autorappresentazione ed autodeterminazione - dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora , attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
In definitiva, il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti. Ne consegue che, diversamente opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost.. D’altra parte, a diversa conclusione non può giungersi nemmeno sostenendo che, attraverso la considerazione di esigenze diverse, l’amministrazione finirebbe per comprimere il contenuto stesso del diritto di proprietà, e lo stesso ius aedificandi allo stesso connesso. Senza volere entrare in un dibattito ampio ed ultratrentennale, che ha visto numerosi interventi della Corte Costituzionale, occorre almeno ricordare come sia stato affermato che nel nostro ordinamento non è individuabile un solo astratto diritto di proprietà, dipendendo il contenuto dello stesso dalla natura intrinseca del bene (sentenze nn. 55 e 56 del 1968).
 La Corte Costituzionale ha, in particolare, affermato, con sent. 9 maggio 1968 n. 55, che “senza dubbio la garanzia della proprietà privata è condizionata, nel sistema della Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di funzione sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed utilità generale. Ciò con maggiore ampiezza e vigore di quanto è stabilito dagli artt. 832 e 845 del Codice civile, i quali, per il contenuto del diritto di proprietà fondiaria in particolare, richiamano, rispettivamente, i limiti e gli obblighi stabiliti "dall'ordinamento giuridico" e le regole particolari per scopi di pubblico interesse. . . . Secondo i concetti, sempre più progredienti, di solidarietà sociale, resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall'attitudine di essere sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare”. Allo steso tempo, anche laddove la Corte Costituzionale ha affermato l’inerenza dello ius aedificandi al diritto di proprietà (con la nota sentenza 30 gennaio 1980 n. 5), essa ha precisato che “è indubbiamente esatto che il sistema normativo attuato per disciplinare l'edificabilità dei suoli demanda alla pubblica autorità ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando . . . della edificazione . . .”, di modo che se da ciò deriva che “il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire . . . di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l'avente diritto può solo costruire entro limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici”.
Ovviamente, il potere di pianificazione urbanistica, a maggior ragione in considerazione della sua ampia portata in relazione agli interessi pubblici e privati coinvolti, così come ogni potere discrezionale, non è sottratto al sindacato giurisdizionale, dovendo la pubblica amministrazione – come ribadito dalla costante giurisprudenza del giudice amministrativo – dare conto, sia pure con motivazione di carattere generale, degli obiettivi che essa, attraverso lo strumento di pianificazione, intende perseguire e, quindi, della coerenza delle scelte in concreto effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti".

Per quanto riguarda la realtà marchigiana occorre ora analizzare il livello di congruenza o di incongruenza tra questa sentenza e la proposta di revisione della Legge Urbanistica regionale già presentata in Giunta, anche in considerazione delle questioni che tale sentenza inevitabilmente apre relativamente, ad esempio, alle pratiche di vera partecipazione dei cittadini nei processi decisionali.