Carlo
Brunelli
UN PIANO PARTICOLAREGGIATO
PER IL ‘PAESAGGIO LEOPARDIANO’
in Atti del XV convegno internazionale di studi leopardiani
Recanati, ottobre 2021 (pubblicato nel 2024)
Poco più di un anno fa il Comune di Recanati mi propose di mettere le mani sul Piano Particolareggiato
dell’area rurale posta al margine del centro storico, nel versante che guarda a sud sotto il colle
dell’Infinito. L’obiettivo era quello
di riprendere precedenti studi che si erano susseguiti in vent’anni, senza
mai giungere a conclusione, da quando il nuovo Piano
Regolatore Generale aveva
previsto la redazione di un Piano per la gestione dell’area sottoposta a
vincolo paesaggistico e riferita al ‘paesaggio leopardiano’.
Mi si chiedeva, dal mio punto di vista, di
confrontarmi non solo con il tema
del paesaggio, di per sé complesso e sfuggente specie in ambito urbanistico, ma
addirittura con la visione del paesaggio in Leopardi.
Pur non essendo né un letterato né un filosofo, avevo letto
abbastanza Leopardi per comprendere quanto importante fosse il pensiero del
Poeta all’interno del dibattito contemporaneo sul paesaggio. In più l’amicizia
con il suo discendente Vanni mi aveva consentito di approfondire la
straordinaria attualità di quel pensiero. Pertanto risposi al Comune di
Recanati che se l’obiettivo era mettere insieme i cocci di interventi di pianificazione
non completati, con l’intento di dettagliare l’applicazione di vincoli e regole
secondo i canoni dell’urbanistica applicata al paesaggio, l’incarico non mi
interessava perché da tempo avevo maturato i limiti di un approccio
conservativo della pianificazione paesaggistica. Se invece si voleva
approfittare di questa occasione per impostare un piano partecipato, rivolto
alla qualificazione del paesaggio, aprendo a nuove prospettive del fare
urbanistica, allora mi sarei riservato di accettare l’invito
una volta che mi fossi chiarito il concetto di ‘paesaggio leopardiano’, la sua effettiva
consistenza.
L’esigenza di superare una concezione meramente conservativa in termini di
pianificazione del paesaggio deriva da una semplice constatazione dei fatti.
Ferma restando l’utilità e l’efficacia dei vincoli di tutela, qui a Recanati
come in generale nel Paese, notiamo che se da un lato l’apposizione del vincolo
di inedificabilità sulla porzione di territorio a sud del centro storico lo ha
preservato dall’espansione edilizia rendendo oggi possibile leggere il rapporto
tra l’abitato storico ed il paesaggio rurale, i contenuti di salvaguardia delle
componenti edilizie di valore storico non sono state oggettivamente sufficienti
ad evitare che quel paesaggio rurale mutasse, impoverendosi, in modo analogo a
quello di tutto il territorio collinare marchigiano.
Questo perché l’urbanistica e la tutela ambientale-paesaggistica
ad essa associata hanno una potestà limitata fondamentalmente al costruito e ad
alcuni elementi dell’ambiente naturale, ed agisce con l’intento di vietare
trasformazioni potenzialmente dannose per i soli beni individuati. Ma anche
perché il concetto stesso di paesaggio è formato, in modo ‘positivo’, come
somma di componenti disgiunte e misurabili in sé attraverso scale astratte di
valore, non riuscendo a cogliere l’essenzialità dell’interdipendenza delle
componenti stesse.
La volontà di affrontare il paesaggio in modo meramente
scientifico porta inevitabilmente ad un paesaggio come mosaico di elementi,
nella convinzione
che l’unitarietà della realtà, una volta scomposta in mille pezzi, possa essere
ricomposta come in un gioco matematico. Ma una volta rotto un vaso sappiamo che
la ricomposizione dei cocci non potrà restituirci l’integrità del vaso
originario, e alla fine, come per il vaso, si arriva a dedurre la morte del
paesaggio o a teorizzare la sua inesistenza.
Ma il paesaggio è lì, intorno a noi, e rende palese l’assurdità
di queste
concezioni.
Il paesaggio che osserviamo dal Colle dell’Infinito ha, come
tutti i paesaggi, una sua ambiguità. Alcune cose appaiono costanti altre sono
mutevoli ma stabili altre ancora dipendono dall’osservatore, dal significato
che la sua cultura e il suo stato emotivo pone su quell’immagine percepita.
Riferendoci al paesaggio che Leopardi osservava dal Colle
dell’Infinito,
possiamo dire che costante è la morfologia della Terra, la presenza dei ‘monti azzurri’
da un lato e del mare dall’altro, con in mezzo la grande e luminosa distesa di
colline. Un aspetto del paesaggio che certamente ha influenzato il pensiero e
l’opera del Poeta.
C’è poi la componente antropica che agisce su quella forma e la disegna
in modo fine e complesso. E in questa possiamo distinguere due situazioni.
Una serie di elementi che sembrano aderire in modo più coerente alla forma della
Terra – come i centri storici collocati sui poggi, la trama delle strade rurali
di crinale o di costa a collegare le fonti poste sotto lo zoccolo arenaceo su
cui sorgono i paesi, alcune coltivazioni a ‘rittochino’, i parchi delle ville sulla
cima dei colli – altri elementi sembrano occupare il territorio in modo libero,
indifferente al contesto – come i nastri delle autostrade, le aree industriali,
gli insediamenti sui versanti franosi o nelle aree esondabili dei fiumi, le espansioni
edilizie sui versanti fino a connettere l’antico borgo di poggio con il
fondovalle.
Se poi scendiamo a piedi dentro quel paesaggio visto dal Colle
dell’Infinito,
questa differenza tra cose coerenti con la Terra e cose libere da essa appare ancora
più evidente. Spesso l’antica casa rurale, tutelata dalle norme urbanistiche e
quindi conservata nelle sue forme e materiali, appare circondata da una
pertinenza che nulla ha più di ‘rurale’ ma assume i medesimi caratteri del
‘villino’ borghese di una qualsiasi periferia urbana, con tanto di recinzioni metalliche
e cancelli in ferro decorato. Così le ristrutturazioni e gli ampliamenti, non
soggetti a vincolo, assomigliano a quello che troviamo nella parte urbana, e
l’immagine della campagna, ancorché denominata ‘paesaggio marchigiano’ non ha
davvero più nulla di quel paesaggio marchigiano riferito al mondo mezzadrile
ancora presente nel secondo dopoguerra ma ha assunto i caratteri
dell’agricoltura intensiva monocolturale, del tutto priva della ricchezza di
segni, delle alberate, delle siepi che identificavano quel tipo di paesaggio
che poteva ancora rimandare a quello che Leopardi frequentava nelle sue
passeggiate contemplative. Non si sentono più i versi degli animali, non ci
sono più le aie, le stalle, né i contadini.
Da tempo vado argomentando questa compresenza di due diversi
aspetti dell’impronta umana sul paesaggio marchigiano, che corrispondono a due momenti
storici successivi, distinguendo tra quello che chiamo ‘paesaggio della
necessità’ e quello che lo segue e che chiamo ‘paesaggio della libertà’.
La successione da una fase all’altra corrisponde al momento in cui, come effetto
dell’illuminismo e dell’avvento della società borghese, si matura l’idea che
l’umanità, grazie alla tecnica, può liberarsi dal vincolo di necessità.
Se prima si costruiva sul crinale o sul poggio, perché più stabile, grazie alla
tecnica posso fondare case sui pali in cemento armato e costruire anche sul
versante. Se prima ‘dovevo’ coltivare a rittochino per gestire al meglio le acque
nel terreno argilloso acclive e ‘dovevo’ disporre del letame degli animali per
dare consistenza organica al terreno e renderlo fertile, con la tecnica posso deviare
le acque verso i fossi o cancellare i fossi se mi infastidiscono nel lavoro con
le macchine e posso utilizzare fertilizzanti di origine chimica prodotti in comodi
sacchi preconfezionati.
Guardando il paesaggio dal Colle dell’infinito non possiamo
quindi che prendere atto dell’impossibilità di associare in modo diretto questo
paesaggio alla figura storica di Leopardi se non per gli aspetti
fisico-morfologici visibili, che possiamo considerare sostanzialmente immutati
dalla sua epoca alla nostra. Ma proprio nel mentre realizziamo che non esiste
oggi un paesaggio leopardiano, è Giacomo a prenderci per mano e ad indicarci la
via d’uscita.
Nella poetica leopardiana il paesaggio non entra come
descrizione oggettiva, ma come percezione soggettiva e soprattutto come
metafora. L’intorno percepito dal poeta si carica di valore simbolico ed ‘allude’
ad una dimensione autentica, vera e vitale che l’uomo, per sua natura, non
riesce a comprendere attraverso la ragione.
La siepe de ‘l’infinito’ non è semplicemente una formazione
vegetazionale così fitta da non permetterci di vedere attraverso, ma è la
metafora della nostra razionalità che ci impedisce di vedere oltre quanto la
razionalità stessa ci predispone a vedere, ci impedisce di percepire la Verità,
o se vogliamo dirlo in senso ontologico, l’eternità.
Leopardi aveva
compreso con estrema lucidità come il pensiero positivo avrebbe portato alla
‘liberazione’ dell’umanità dalla Natura, all’illusione di dominarla, di frammentarla
e misurarla, con la conseguente caduta nel vortice del nulla e del rischio
dell’autoestinzione dell’intera specie.
[…] ma certo non
c’è più dritta strada a quello che ho detto, di questa presente condizione
degli uomini, dell’incremento e divulgamento della filosofia da una parte, la
quale ci va assottigliando e disperdendo tutto quel poco che ci
rimane; e dall’altra
parte della mancanza positiva di quasi tutti gli oggetti
d’illusione, e della mortificazione reale, uniformità, inattività, nullità ecc.
di tutta la vita. […] Tanto è possibile che
l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre
più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice
fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni.
A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio
nelle passate età, dei
progressi di un incivilimento smisurato, e di un snaturamento senza
limiti. Ma se non
torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo
esempio ai loro posteri, se
avranno posteri. (Zibaldone, 216-217)
Sogni e visioni. Leopardi afferma con decisione che non è la
dimensione scientifica ad avvicinarci alla Verità bensì la facoltà umana più
elevata, che non è il pensiero razionale, bensì l’immaginazione. La razionalità
ci serve semmai a costruire una realtà di comodo in cui superare l’ansia dalla
impossibilità di controllare il nostro destino e, in senso lato, di sfuggire
alla morte. Ma volendo sfuggire dalla morte, finiamo soltanto con il fuggire
dalla Vita.
Esplode qui tutta la modernità di Leopardi, non solo perché ha
compreso con due secoli di anticipo le conseguenze del distacco dell’uomo dalla
Natura, usando espressioni ancora più chiare e forti di quelle contenute nella
recente Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, ma perché il richiamo al pensiero ‘arguto’ ed
‘onirico’ come dimensione propria del paesaggio è contenuto nelle più attente e
convincenti riflessioni contemporanee attorno al tema del paesaggio, come
quella di Franco Farinelli.[1]
Possiamo quindi affermare che il paesaggio leopardiano non è un
luogo fisico tangibile, ma è il luogo dell’immaginazione. Non un deposito di
cose, ma la possibilità – e la speranza – che quelle cose ricompongano
un’unitarietà che sappiamo essere irraggiungibile ma a cui dobbiamo tendere,
che dobbiamo ricercare.
Questo diverso atteggiamento verso il paesaggio non è soltanto
un moto
dello spirito individuale che scaturisce dall’osservatore come soggetto esterno
ed estraneo al paesaggio stesso, ma ci coinvolge in quanto co-artefici del
paesaggio e ad esso immanenti, come ben esprime l’identificazione del Poeta con
la ginestra che continua a fiorire in mezzo al deserto.
Ma se davvero possiamo assumere il ‘paesaggio leopardiano’ come
espressione di un profondo cambio di orizzonte del pensiero, possiamo anche
associare a questo pensiero un agire ad esso conseguente. E spostando
l’orizzonte del pensiero dalla razionalità all’immaginazione, forse stiamo
dicendo che l’azione espressiva di quel pensiero nuovo è il ‘progetto’ (dal
latino pro-jecto = getto avanti, quindi, in senso figurato, immagino).
Ma chi è l’artefice di questo possibile progetto di paesaggio? Di certo non un
singolo soggetto, anche fosse un bravo architetto, o una equipe tecnica, perché il paesaggio
non è l’espressione di una singolare volontà.
Il paesaggio è il risultato dell’agire di una comunità umana
all’interno delle dinamiche naturali della realtà, è quindi espressione di una
volontà collettiva, a sua volta espressione di una cultura collettiva.
A questo punto potevo accettare l’invito del Comune di Recanati
a redigere un Piano particolareggiato del paesaggio leopardiano, ma era un
Piano ben diverso da quelli consueti, dove la dimensione del progetto si
evidenzia e prevale su quella della conservazione, dove è imprescindibile
un’azione di coinvolgimento e partecipazione di tutti coloro che vivono e
operano in quel comparto territoriale, dove l’attuazione del Piano non si
limita al rispetto di alcune regole ma implica un impegno a immaginare e
realizzare insieme azioni di qualificazione e accordo con la Natura. Un Piano
che quindi va oltre il Piano e diventa Laboratorio di un agire consapevole.
Si apre, in altri termini, la prospettiva di una quarta fase nel
paesaggio.
Dopo il paesaggio della Terra, il paesaggio della necessità e il
paesaggio della
libertà, è ora il momento del ‘paesaggio della consapevolezza’, in cui
l’agire tende ad aderire alla Natura non per obbligo ma per scelta, restando
libero di non farlo grazie alla tecnica.
Il Piano particolareggiato del Colle dell’Infinito interessa un territorio di limitata
estensione (circa 255 ettari) che si colloca al margine del fronte sud-ovest
del centro storico di Recanati. Un versante piuttosto acclive e segnato dalle
ramificazioni sommitali del fosso Ricale.
Il suolo, fondamentalmente utilizzato per le coltivazioni
agricole, sta subendo i fenomeni di degrado diffusi in tutte le colline
marchigiane, segnate dall’abbandono dei terreni più acclivi, la cancellazione
dei sentieri interpoderali, la lavorazione meccanizzata spinta fino al limite
dei fossi, che per le mutate condizioni nella gestione idrica superficiale producono
erosioni verticali a volte profonde alcuni metri e coperte da vegetazione
infestante, che destabilizzano i versanti che vi confluiscono. Un’agricoltura essenzialmente
condotta a seminativo, tranne residui di oliveti e di orti a conduzione
familiare.
L’insediamento diffuso ha subìto una lenta e inesorabile trasformazione
verso un’immagine rarefatta di periferia urbana che poco o nulla conserva di un’idea
di ruralità ormai ridotta ad archeologia, in quanto leggibile solo nelle case
coloniche abbandonate perché più difficilmente raggiungibili.
Su questo paesaggio in de-composizione l’obiettivo del Piano
particolareggiato è, come già esposto, non quello di conservare – dato che c’è
ben poco da conservare – ma al contrario quello di stimolare processi di
trasformazione che migliorino l’esistente, specie negli elementi non soggetti a
tutela.
Per mirare questo obiettivo il Piano si articola su due livelli:
il livello delle regole, che corrisponde alla dimensione consueta del Piano
urbanistico volta a regolamentare gli usi del suolo e le attività di
costruzione, ed il livello del progetto, che delinea le modalità di
trasformazione del paesaggio cercando di stimolarne l’attuazione, agendo di
concerto con chi vive ed opera all’interno del paesaggio stesso.
Sul livello delle regole sono state introdotte alcune novità
rispetto al modo consueto di individuare e gestire l’oggetto delle norme. Oltre
alla revisione e aggiornamento delle classificazioni qualitative degli edifici
rurali meritevoli di tutela, una particolare attenzione è stata data agli
edifici non tutelati che, in quanto svincolati da ogni obbligo formale, hanno
prodotto architetture per lo più dequalificanti, per banalità e
de-contestualizzazione delle soluzioni. Partendo dal fatto che oggi l’attività
edilizia si esplica essenzialmente attraverso interventi di ristrutturazione
sostenuti da bonus fiscali, è stata impostata una normativa che agisce per
‘componenti edilizie’ andando a indirizzare i nuovi interventi verso l’uso di
materiali, colori e soluzioni architettoniche meno estranee al contesto locale
stimolando la reinterpretazione della tradizione costruttiva così da
riconnettere il filo spezzato della continuità storica.
Anche nella determinazione del vincolo per le case coloniche,
attraverso
l’interlocuzione con le proprietà, si è cercato di inserire nel giudizio di
valore
l’obiettivo concreto del recupero. Per semplificare, diciamo che l’applicazione
di un vincolo di conservazione integrale ad un edificio che mantiene caratteri
storico-testimoniali di interesse va definito anche in funzione della reale possibilità
che il recupero avvenga. L’obiettivo è il recupero, non la norma che regola il
recupero. Se la costruzione ha una finalità turistica posso portare la
proprietà a convincersi che l’integrità della tutela dell’edificio, all’esterno
quanto all’interno, costituisce un valore economico che il turista è disposto a
pagare. Di conseguenza il recupero ha condizioni reali per potersi effettuare ed
il valore dell’integrità dei caratteri storici della costruzione sarà
disponibile ai visitatori e quindi, in qualche modo, pubblicamente fruibile. Ma
se quella stessa costruzione ha una finalità abitativa per il proprietario
l’integrità del vincolo sarà un peso e tenderà a tradirla, specie nella parte
interna che, in quanto destinata ad uso privato, è lecito desiderare di
adattare alle proprie esigenze. Inoltre l‘interno non sarà pubblicamente
fruibile e l’integrità del recupero non lo vedrà nessuno. Allora forse è
preferibile attestarsi sul rispetto dell’immagine esterna dell’edificio o sul
mantenimento di un generale assetto strutturale, lasciando che gli spazi
possano essere adattati alle esigenze di chi ci vive. Il rischio di una norma
che non comprende le reali possibilità di applicazione o che se ne disinteressa,
è quello che il proprietario non intervenga e, come purtroppo accade spesso,
lasci che l’edificio crolli, per poi utilizzare il diritto della volumetria e
realizzarla con la libertà desiderata. In questo caso la norma definita con
l’intento di tutelare il bene diviene causa della perdita
del bene stesso.
Accanto alla reinterpretazione del vincolo in senso pragmatico
il Piano
però allarga il concetto di vincolo ad una dimensione paesaggistica. Il vincolo
di tutela sugli elementi del paesaggio è emanazione di una certa cultura
storico-archeologica, che anima ancora oggi le soprintendenze, che si rivolge
al singolo oggetto storico, trattato come un vero ‘reperto’ isolato, schedabile
ed archiviabile, fondamentalmente indifferente al suo intorno. Accade così che
si tutela la casa colonica ma non la pertinenza, non l’aia che della casa è
spazio integrante seppure privo di mura, né il rapporto con il campo coltivato
e con i sentieri e le strade camporili. Ne consegue che nella maggior parte dei
casi le abitazioni rurali, recuperate anche in modo rispettoso delle norme,
siano invisibili o decontestualizzate, oggetti di archeologia come quei cippi
lapidei trovati nei campi ed esposti magari come sostegno di un tavolo da
giardino o come le consuete pietre da macina appoggiate a una parete.
Il Piano non intende imporre l’apertura dello spazio privato
esterno all’abitazione a chi oggi vive l’abitare in modo del tutto diverso a
quello dei contadini d’epoca leopardiana ma è pur necessario tornare a distinguere
un modo di abitare urbano da un modo di abitare rurale. Questa distinzione
vuole essere motivo di discussione con i privati che abitano in questo
territorio per trovare insieme un modo attuale di interpretare la ruralità, nell’obiettivo
di ritrovare però quei suoni, quelle sensazioni, così magnificamente descritte
da Leopardi e che oggi sono scomparse. A questa idea di ruralità si rivolge
anche l’intenzione di riaprire i vecchi sentieri camporili, così da consentire
di tornare alla libertà di passeggiare, attraversare, la campagna. Pratica
ormai impossibile che avrebbe però, a Recanati, una straordinaria valenza di
interesse turistico.
Le novità introdotte nel livello delle regole hanno la necessità di essere calibrate
attraverso un dialogo puntuale con la comunità che vive ed opera in quel
territorio. Ed è questa partecipazione attiva che apre alla possibilità di
inserire nel Piano il secondo livello, quello del progetto.
Parlando di progettazione partecipata è bene chiarire, per chi
non è introdotto nel tema e nella pratica partecipativa, che non si tratta di
‘far progettare la gente’ perché la progettazione richiede esperienze e
competenze di cui la ‘gente’ non dispone, una capacità di sintesi e di messa a
sistema dei diversi aspetti che richiede un talento ed una pratica non usuali.
Il progetto, nella partecipazione, continuano a farlo gli architetti, ma lo
fanno ascoltando e facendo proprie le esigenze e le ‘speranze’ di chi vive in
quel contesto e sarà chiamato ad esser artefice del nuovo paesaggio immaginato.
Alla fine la bontà del progetto si misurerà sia nella qualità disciplinare del
risultato della progettazione, sia nella misura della condivisione di quella progettazione,
di quanto cioè i residenti sentano quella progettazione come espressione di sé
e vi si riconoscano.
Il progetto partecipato nasce da un ‘metaprogetto’, ed è l’architetto, assieme
al lavoro integrato degli altri esperti delle discipline attinenti il
territorio, che imposta questo primo disegno sulla base di una rilettura del
territorio attraverso gli orizzonti e le strategie che sono il prodotto del
dibattito culturale sulle politiche ambientali, a livello istituzionale,
universitario, o comunque disciplinare.
È un progetto che indirizza il successivo confronto partecipativo
verso prospettive di cambiamento che sono le stesse evocate dagli strumenti di
finanziamento europeo. Prospettive che parlano di valorizzazione dei territori,
di potenziamento delle biodiversità, di buone pratiche agricole, di ecologia, di
salute, di riduzione degli sprechi e di corretto uso delle risorse, di
interesse verso la sfera sociale e anche verso l’occupazione in nuove attività
sostenibili, di cultura e di turismo.
Entra, ad esempio in questa metaprogettazione, il processo di adeguamento
alla Rete Ecologica Marchigiana guidato dal prof. Fabio Taffetani che ha individuato
e caratterizzato le nuove presenze vegetazionali assieme alle carenze negli
elementi primari (vegetazione ripariale, macchie boschive consolidate)
definendo, accanto alla legenda disciplinare di tipo botanico, una più fine legenda
‘operativa’ che indichi che cosa è giusto fare per tutelare ed incrementare in
modo corretto quelle presenze.
Assieme agli aspetti vegetazionali nella tavola del ‘progetto di piano’ sono indicati
i fossi o le aree soggette a problemi di carattere idrogeologico in cui è
urgente intervenire, i percorsi e sentieri storici da riattivare, gli elementi
costruiti che determinano particolare impatto e che quindi necessitano di una mitigazione
o di possibilità di trasformazioni migliorative. Sono indicati gli edifici che
conservano un rapporto aperto di tipo ‘rurale’ con la pertinenza e i campi
circostanti, i possibili luoghi di sosta panoramici lungo gli itinerari che
attraversano il territorio, le fonti, le previsioni di piano verso usi impropri
(produttivi e per depositi all’aperto) da convertire ad usi a servizio del
turismo ed occasione di recupero ambientale delle aree.
Le indicazioni riportate sulla cartografia di progetto si
accompagnano anche ad indicazioni semplicemente enunciate volutamente in modo
incompleto perché oggetto di discussione partecipata, come il ‘desiderio’ di
un’agricoltura più ricca ed estesa a colture della tradizione, alla possibilità
di elaborare prodotti derivati da tali colture, di un ritorno degli animali da
cortile e da lavoro, dei segni reinterpretati della tradizione agricola locale,
dai pagliai alle recinzioni di cannucciaie e siepi di spina christi.
Tutte queste indicazioni esulano dal campo d’azione proprio dell’urbanistica
perché non possono essere imposte attraverso leggi e norme. Ma non per questo
devo giustificarne l’assenza o limitarmi di una loro enunciazione velleitaria
destinata a rimanere sulla carta.
La recente evoluzione delle tecniche urbanistiche verso le forme
di intesa
pubblico-privato, ed i progetti integrati, consentono di percorrere una nuova
via che può incidere davvero sui cambiamenti evocati e renderli concreti, attuabili.
Certo si tratta di un percorso impegnativo, coinvolgente,
incerto nel risultato finale, ma che oggi non possiamo non percorrere se
davvero convinti che la tutela dei valori, della bellezza, abbia un senso e che
possiamo tornare a produrre opere d’arte in tutta umiltà, nella pratica
corrente del nostro fare divenuto finalmente ‘fare consapevole’.
L’intesa è la forma vera di attuazione del livello del progetto nel Piano
particolareggiato del Colle dell’Infinito.
La seconda fase del Piano, dopo la prima stesura per mano dei
tecnici, prevede la discussione con ciascuno dei 140 circa proprietari di
terreni o case
nell’area del Piano. Si tratta di un’occasione per spiegare in modo personale e
accurato la filosofia del Piano chiedendo di condividerla, di comprenderne le
potenzialità future attraverso lo sviluppo della fase laboratoriale, ma si
tratta
soprattutto, da parte dei progettisti, di ascoltare le esigenze, le idee e le
storie di quelle persone che sono parte viva del paesaggio che andiamo
sognando, e senza i quali quel sogno è impossibile o velleitario. L’intento è
quello di favorire le esigenze o i desideri di chi vive il territorio nei
limiti posti dalle Leggi e dai vincoli di tutela cecando però di convincere sui
modi della risposta e sulla opportunità di associare alla trasformazione di interesse
privato anche alcune trasformazioni di interesse collettivo, all’attuazione di
parti di quel metaprogetto che abbiamo posto come prospettiva di discussione
comune.
Questo è il momento in cui davvero si progetta insieme al privato e spetta
al progettista del Piano, e al suo staff di esperti, indirizzare il progetto
verso un risultato soddisfacente ovvero chiudere il lavoro senza risultato,
negando l’opzione di trasformazione avanzata dal privato. L’importante è che il
processo, l’incontro, avvenga nella massima trasparenza, affinché il diniego
all’uno e l’intesa con l’altro non generi contestazioni o accuse di
sperequazioni. E d’altra parte l’ultima voce, in sede di approvazione del
Piano, spetta alla parte politica.
Questo approccio dialogante non nega affatto la validità dei
vincoli, ma non si può nascondere il fatto che ne stimoli una diversa
interpretazione. Se le norme di tutela si sono rivolte alla limitazione del
fare, interessandosi in particolare delle ‘quantità’ edilizie, l’attenzione si
sposta qui verso la ‘qualità’. Ciò comporta inevitabilmente una sollecitazione
del limite quantitativo del vincolo. Vale a dire che se oggi l’efficacia della
pianificazione, in termini di tutela paesaggistica, si misura nella capacità di
impedire incrementi di volume e conservare il più possibile lo status quo, la
nuova concezione della pianificazione che sottintende il Piano
Particolareggiato del Colle dell’Infinito misura la sua efficacia nella
capacità di determinare una situazione ex post che sia migliore sotto tutti gli aspetti a quella ex ante, che determini quindi una
qualificazione
del paesaggio. Se per ottenere questa nuova configurazione mi trovo a concedere
un piccolo ampliamento o un riposizionamento di volume edilizio ma verificato
il risultato finale questo è migliorativo, anche in termini di architettura,
materiali, aderenza alle tradizioni costruttive, perché non consentirlo? Se
consideriamo che spesso il vincolo coinvolge anche edifici formalmente brutti o
impropri ed è proprio la trasformazione in qualcosa di migliorativo l’obiettivo
da perseguire come pensiamo di raggiungerlo se precludiamo una forma di
interesse, una motivazione per cui il privato intraprenda quella trasformazione?
Allo stesso modo, di fronte all’esigenza produttiva di un’azienda agricola che
vuole intraprendere un’attività di trasformazione dei suoi prodotti in linea
con le pratiche dell’agricoltura sostenibile, della filiera corta
agroalimentare, un’attività che può produrre occupazione e creare servizio al
turismo locale, perché devo apriori negare la possibilità di realizzare un
piccolo manufatto si servizio o devo trovarmi a dover ricorrere a strumenti di
‘deroga’, come lo Sportello Unico per le Attività Produttive in variante al Piano?
Non è forse preferibile e più controllabile sviluppare una progettualità
condivisa e concedere quel manufatto dopo averne controllato forma, dimensioni,
qualità architettonica e inserimento nel paesaggio, senza ricorrere a palliativi?
Queste considerazioni sono oggi sottomesse al rispetto delle norme
ma sono certamente destinate a intaccare e corrodere l’impostazione dogmatica del
modo tradizionale di fare urbanistica per aprirsi, con più coraggio e forse con
più competenza e consapevolezza, al confronto dialogico ed alla dimensione
prioritaria del progetto.
Sotto l’aspetto attuativo i due livelli del Piano corrispondono
a due diverse
prassi: l’attuazione diretta da parte del soggetto privato nel rispetto delle
norme l’attuazione indiretta, attraverso un piano di recupero proposto in modo
autonomo o costruito assieme alla pubblica amministrazione.
Nel caso del piano di recupero, quando si chiede di andare oltre
l’applicazione più restrittiva delle norme, il piano deve assumere anche alcune
componenti di attuazione indicate del metaprogetto per la riqualificazione del
paesaggio. Se ad esempio in un determinato terreno in cui si chiede una
modifica edilizia, oltre alla qualità architettonica della modificazione
stessa, si può concordare il rispristino di un tratto di sentiero storico
precisandone il tracciato o la realizzazione di una siepe naturale a
integrazione di una recinzione, un intervento di cura di una parte di bosco. In
caso si tratti di aziende agricole si può discutere la riapertura di un fosso
naturale cancellato o l’alberatura del fosso stesso e l’accordo per renderlo
transitabile in una fascia di tre metri dalla sponda, o l’inserimento di
animali da cortile ed elementi della tradizione agricola. Ogni intervento
diviene così un tassello della costruzione del paesaggio immaginato e pertanto
la spinta del Piano è che si attui il maggior numero di
interventi.
Le proprietà che nel discutere la fase partecipativa
rappresenteranno la necessità e la possibilità di intervenire in tempi
definiti, entro tre-quattro anni dall’entrata in vigore del Piano, avranno
l’opportunità di definire da subito il progetto condiviso che diventerà una
scheda progetto inserita già nel Piano, senza necessità di rimandare a
successivi piani di recupero dispendiosi tanto in termini di costi che di
tempo.
E così, nella fase di costruzione del Piano si attiva di fatto già il
Laboratorio
che ne gestirà lo slancio immaginario Quando si incontrano i singoli
proprietari viene dato loro un ‘manifesto di intenti’ nel quale si chiede di
condividere la nuova modalità di approccio partecipato al Piano e, in
particolare, di alcune possibili attività che vedano i privati e
l’amministrazione comunale collaborare per acquisire finanziamenti
e costruire parti del paesaggio immaginato oltre il Piano, rendendole concrete nella
compagine sociale recanatese.
L’adesione a queste intenzioni è pressoché totale da parte dei
proprietari
che concordano nel tentare di costruire una filiera corta locale, che
garantisca maggiore reddittività attraverso l’introduzione di nuove colture, e
nuovi prodotti destinati al consumo dei turisti presso le strutture ricettive
locali o dei recanatesi stessi attraverso la distribuzione nei mercati di
quartiere o la possibilità di andare presso i produttori, magari a piedi o in
bici. Allo stesso modo mostrano interesse ad ottenere finanziamenti per entrare
nel circuito del biologico, per gestire in forma consortile la manutenzione dei
fossi, con cure svolte stagionalmente, dopo aver realizzato interventi di
ripristino attraverso l’accordo agroambientale d’area, sempre in concorso con
l’amministrazione.
E durante gli incontri si parla già di aprire tratturi per le passeggiate a
cavallo, o di implementare spazi per fattorie didattiche e cultura
dell’ambiente, di intese per la cessione al pubblico e la sistemazione delle
aree di sosta o della riapertura delle vecchie strade vicinali.
Si lavora, si discute, si sogna nel mentre ci si conosce e si
vede affermarsi,
dopo l’iniziale diffidenza, una possibile nuova intesa tra cittadino e
istituzione, una fiducia sul fatto che in fondo si opera assieme per la cura
della stessa terra, privata o pubblica che sia.
Alla fine di ogni incontro finiamo, noi progettisti ed i
privati, col ringraziarci a vicenda.
Questo è quello che abbiamo inteso concepire come ‘paesaggio leopardiano’: un
faticoso ma piacevole esercizio collettivo di immaginazione. Non so se questa
sia l’interpretazione corretta anche da altri punti di vista, meno operativi e
più filosofico letterari, ma in riferimento al nostro modo di concepire il paesaggio,
da umili architetti, a noi sembra essere giusta. E in ogni caso, ogni volta che
ci salutiamo alla fine degli incontri, dopo aver immaginato insieme un
paesaggio – e un mondo – possibile, scambiandoci reciproci ringraziamenti,
penso che Giacomo sia lì con noi, e sorrida.
[1] Franco Farinelli, L’arguzia
del paesaggio, in Il disegno del paesaggio italiano. The design of the Italian
landscape, «Casabella», DLXXV/DLXXVI, 1991, pp. 10-12.