sabato 8 marzo 2025

 


Carlo Brunelli


UN PIANO PARTICOLAREGGIATO
PER IL ‘PAESAGGIO LEOPARDIANO’

in Atti del XV convegno internazionale di studi leopardiani

Recanati, ottobre 2021 (pubblicato nel 2024)


Poco più di un anno fa il Comune di Recanati mi propose di mettere le mani sul Piano Particolareggiato dell’area rurale posta al margine del centro storico, nel versante che guarda a sud sotto il colle dell’Infinito. L’obiettivo era quello di riprendere precedenti studi che si erano susseguiti in vent’anni, senza mai giungere a conclusione, da quando il nuovo Piano Regolatore Generale aveva previsto la redazione di un Piano per la gestione dell’area sottoposta a vincolo paesaggistico e riferita al ‘paesaggio leopardiano’.
Mi si chiedeva, dal mio punto di vista, di confrontarmi non solo con il tema del paesaggio, di per sé complesso e sfuggente specie in ambito urbanistico, ma addirittura con la visione del paesaggio in Leopardi.

Pur non essendo né un letterato né un filosofo, avevo letto abbastanza Leopardi per comprendere quanto importante fosse il pensiero del Poeta all’interno del dibattito contemporaneo sul paesaggio. In più l’amicizia con il suo discendente Vanni mi aveva consentito di approfondire la straordinaria attualità di quel pensiero. Pertanto risposi al Comune di Recanati che se l’obiettivo era mettere insieme i cocci di interventi di pianificazione non completati, con l’intento di dettagliare l’applicazione di vincoli e regole secondo i canoni dell’urbanistica applicata al paesaggio, l’incarico non mi interessava perché da tempo avevo maturato i limiti di un approccio conservativo della pianificazione paesaggistica. Se invece si voleva approfittare di questa occasione per impostare un piano partecipato, rivolto alla qualificazione del paesaggio, aprendo a nuove prospettive del fare urbanistica, allora mi sarei riservato di accettare l’invito
una volta che mi fossi chiarito il concetto di ‘paesaggio leopardiano’, la sua effettiva consistenza.
L’esigenza di superare una concezione meramente conservativa in termini di pianificazione del paesaggio deriva da una semplice constatazione dei fatti.
Ferma restando l’utilità e l’efficacia dei vincoli di tutela, qui a Recanati come in generale nel Paese, notiamo che se da un lato l’apposizione del vincolo di inedificabilità sulla porzione di territorio a sud del centro storico lo ha preservato dall’espansione edilizia rendendo oggi possibile leggere il rapporto tra l’abitato storico ed il paesaggio rurale, i contenuti di salvaguardia delle componenti edilizie di valore storico non sono state oggettivamente sufficienti ad evitare che quel paesaggio rurale mutasse, impoverendosi, in modo analogo a quello di tutto il territorio collinare marchigiano.

Questo perché l’urbanistica e la tutela ambientale-paesaggistica ad essa associata hanno una potestà limitata fondamentalmente al costruito e ad alcuni elementi dell’ambiente naturale, ed agisce con l’intento di vietare trasformazioni potenzialmente dannose per i soli beni individuati. Ma anche perché il concetto stesso di paesaggio è formato, in modo ‘positivo’, come somma di componenti disgiunte e misurabili in sé attraverso scale astratte di valore, non riuscendo a cogliere l’essenzialità dell’interdipendenza delle componenti stesse.

La volontà di affrontare il paesaggio in modo meramente scientifico porta inevitabilmente ad un paesaggio come mosaico di elementi, nella convinzione
che l’unitarietà della realtà, una volta scomposta in mille pezzi, possa essere ricomposta come in un gioco matematico. Ma una volta rotto un vaso sappiamo che la ricomposizione dei cocci non potrà restituirci l’integrità del vaso originario, e alla fine, come per il vaso, si arriva a dedurre la morte del paesaggio o a teorizzare la sua inesistenza.

Ma il paesaggio è lì, intorno a noi, e rende palese l’assurdità di queste
concezioni.

Il paesaggio che osserviamo dal Colle dell’Infinito ha, come tutti i paesaggi, una sua ambiguità. Alcune cose appaiono costanti altre sono mutevoli ma stabili altre ancora dipendono dall’osservatore, dal significato che la sua cultura e il suo stato emotivo pone su quell’immagine percepita.

Riferendoci al paesaggio che Leopardi osservava dal Colle dell’Infinito,
possiamo dire che costante è la morfologia della Terra, la presenza dei ‘monti azzurri’ da un lato e del mare dall’altro, con in mezzo la grande e luminosa distesa di colline. Un aspetto del paesaggio che certamente ha influenzato il pensiero e l’opera del Poeta.
C’è poi la componente antropica che agisce su quella forma e la disegna
in modo fine e complesso. E in questa possiamo distinguere due situazioni.
Una serie di elementi che sembrano aderire in modo più coerente alla forma della Terra – come i centri storici collocati sui poggi, la trama delle strade rurali di crinale o di costa a collegare le fonti poste sotto lo zoccolo arenaceo su cui sorgono i paesi, alcune coltivazioni a ‘rittochino’, i parchi delle ville sulla cima dei colli – altri elementi sembrano occupare il territorio in modo libero, indifferente al contesto – come i nastri delle autostrade, le aree industriali, gli insediamenti sui versanti franosi o nelle aree esondabili dei fiumi, le espansioni edilizie sui versanti fino a connettere l’antico borgo di poggio con il fondovalle.

Se poi scendiamo a piedi dentro quel paesaggio visto dal Colle dell’Infinito,
questa differenza tra cose coerenti con la Terra e cose libere da essa appare ancora più evidente. Spesso l’antica casa rurale, tutelata dalle norme urbanistiche e quindi conservata nelle sue forme e materiali, appare circondata da una pertinenza che nulla ha più di ‘rurale’ ma assume i medesimi caratteri del ‘villino’ borghese di una qualsiasi periferia urbana, con tanto di recinzioni metalliche e cancelli in ferro decorato. Così le ristrutturazioni e gli ampliamenti, non soggetti a vincolo, assomigliano a quello che troviamo nella parte urbana, e l’immagine della campagna, ancorché denominata ‘paesaggio marchigiano’ non ha davvero più nulla di quel paesaggio marchigiano riferito al mondo mezzadrile ancora presente nel secondo dopoguerra ma ha assunto i caratteri
dell’agricoltura intensiva monocolturale, del tutto priva della ricchezza di segni, delle alberate, delle siepi che identificavano quel tipo di paesaggio che poteva ancora rimandare a quello che Leopardi frequentava nelle sue passeggiate contemplative. Non si sentono più i versi degli animali, non ci sono più le aie, le stalle, né i contadini.

Da tempo vado argomentando questa compresenza di due diversi aspetti dell’impronta umana sul paesaggio marchigiano, che corrispondono a due momenti storici successivi, distinguendo tra quello che chiamo ‘paesaggio della necessità’ e quello che lo segue e che chiamo ‘paesaggio della libertà’. La successione da una fase all’altra corrisponde al momento in cui, come effetto dell’illuminismo e dell’avvento della società borghese, si matura l’idea che l’umanità, grazie alla tecnica, può liberarsi dal vincolo di necessità.
Se prima si costruiva sul crinale o sul poggio, perché più stabile, grazie alla tecnica posso fondare case sui pali in cemento armato e costruire anche sul versante. Se prima ‘dovevo’ coltivare a rittochino per gestire al meglio le acque nel terreno argilloso acclive e ‘dovevo’ disporre del letame degli animali per dare consistenza organica al terreno e renderlo fertile, con la tecnica posso deviare le acque verso i fossi o cancellare i fossi se mi infastidiscono nel lavoro con le macchine e posso utilizzare fertilizzanti di origine chimica prodotti in comodi sacchi preconfezionati.

Guardando il paesaggio dal Colle dell’infinito non possiamo quindi che prendere atto dell’impossibilità di associare in modo diretto questo paesaggio alla figura storica di Leopardi se non per gli aspetti fisico-morfologici visibili, che possiamo considerare sostanzialmente immutati dalla sua epoca alla nostra. Ma proprio nel mentre realizziamo che non esiste oggi un paesaggio leopardiano, è Giacomo a prenderci per mano e ad indicarci la via d’uscita.

Nella poetica leopardiana il paesaggio non entra come descrizione oggettiva, ma come percezione soggettiva e soprattutto come metafora. L’intorno percepito dal poeta si carica di valore simbolico ed ‘allude’ ad una dimensione autentica, vera e vitale che l’uomo, per sua natura, non riesce a comprendere attraverso la ragione.

La siepe de ‘l’infinito’ non è semplicemente una formazione vegetazionale così fitta da non permetterci di vedere attraverso, ma è la metafora della nostra razionalità che ci impedisce di vedere oltre quanto la razionalità stessa ci predispone a vedere, ci impedisce di percepire la Verità, o se vogliamo dirlo in senso ontologico, l’eternità.

Leopardi aveva compreso con estrema lucidità come il pensiero positivo avrebbe portato alla ‘liberazione’ dell’umanità dalla Natura, all’illusione di dominarla, di frammentarla e misurarla, con la conseguente caduta nel vortice del nulla e del rischio dell’autoestinzione dell’intera specie.

[…] ma certo non c’è più dritta strada a quello che ho detto, di questa presente condizione degli uomini, dell’incremento e divulgamento della filosofia da una parte, la
quale ci va assottigliando e disperdendo tutto quel poco che ci rimane; e dall’altra
parte della mancanza positiva di quasi tutti gli oggetti d’illusione, e della mortificazione reale, uniformità, inattività, nullità ecc. di tutta la vita. […] Tanto è possibile che
l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni.
A riparlarci di qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nelle passate età, dei
progressi di un incivilimento smisurato, e di un snaturamento senza limiti. Ma se non
torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se
avranno posteri. (Zibaldone, 216-217)

Sogni e visioni. Leopardi afferma con decisione che non è la dimensione scientifica ad avvicinarci alla Verità bensì la facoltà umana più elevata, che non è il pensiero razionale, bensì l’immaginazione. La razionalità ci serve semmai a costruire una realtà di comodo in cui superare l’ansia dalla impossibilità di controllare il nostro destino e, in senso lato, di sfuggire alla morte. Ma volendo sfuggire dalla morte, finiamo soltanto con il fuggire dalla Vita.

Esplode qui tutta la modernità di Leopardi, non solo perché ha compreso con due secoli di anticipo le conseguenze del distacco dell’uomo dalla Natura, usando espressioni ancora più chiare e forti di quelle contenute nella recente Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, ma perché il richiamo al pensiero ‘arguto’ ed ‘onirico’ come dimensione propria del paesaggio è contenuto nelle più attente e convincenti riflessioni contemporanee attorno al tema del paesaggio, come quella di Franco Farinelli.[1]

Possiamo quindi affermare che il paesaggio leopardiano non è un luogo fisico tangibile, ma è il luogo dell’immaginazione. Non un deposito di cose, ma la possibilità – e la speranza – che quelle cose ricompongano un’unitarietà che sappiamo essere irraggiungibile ma a cui dobbiamo tendere, che dobbiamo ricercare.

Questo diverso atteggiamento verso il paesaggio non è soltanto un moto
dello spirito individuale che scaturisce dall’osservatore come soggetto esterno ed estraneo al paesaggio stesso, ma ci coinvolge in quanto co-artefici del paesaggio e ad esso immanenti, come ben esprime l’identificazione del Poeta con la ginestra che continua a fiorire in mezzo al deserto.

Ma se davvero possiamo assumere il ‘paesaggio leopardiano’ come espressione di un profondo cambio di orizzonte del pensiero, possiamo anche associare a questo pensiero un agire ad esso conseguente. E spostando l’orizzonte del pensiero dalla razionalità all’immaginazione, forse stiamo dicendo che l’azione espressiva di quel pensiero nuovo è il ‘progetto’ (dal latino pro-jecto = getto avanti, quindi, in senso figurato, immagino).
Ma chi è l’artefice di questo possibile progetto di paesaggio? Di certo non un singolo soggetto, anche fosse un bravo architetto, o una
equipe tecnica, perché il paesaggio non è l’espressione di una singolare volontà.

Il paesaggio è il risultato dell’agire di una comunità umana all’interno delle dinamiche naturali della realtà, è quindi espressione di una volontà collettiva, a sua volta espressione di una cultura collettiva.

 

A questo punto potevo accettare l’invito del Comune di Recanati a redigere un Piano particolareggiato del paesaggio leopardiano, ma era un Piano ben diverso da quelli consueti, dove la dimensione del progetto si evidenzia e prevale su quella della conservazione, dove è imprescindibile un’azione di coinvolgimento e partecipazione di tutti coloro che vivono e operano in quel comparto territoriale, dove l’attuazione del Piano non si limita al rispetto di alcune regole ma implica un impegno a immaginare e realizzare insieme azioni di qualificazione e accordo con la Natura. Un Piano che quindi va oltre il Piano e diventa Laboratorio di un agire consapevole.

Si apre, in altri termini, la prospettiva di una quarta fase nel paesaggio.

Dopo il paesaggio della Terra, il paesaggio della necessità e il paesaggio della
libertà, è ora il momento del ‘paesaggio della consapevolezza’, in cui l’agire tende ad aderire alla Natura non per obbligo ma per scelta, restando libero di non farlo grazie alla tecnica.
Il Piano particolareggiato del Colle dell’Infinito interessa un territorio di limitata estensione (circa 255 ettari) che si colloca al margine del fronte sud-ovest del centro storico di Recanati. Un versante piuttosto acclive e segnato dalle ramificazioni sommitali del fosso Ricale.

Il suolo, fondamentalmente utilizzato per le coltivazioni agricole, sta subendo i fenomeni di degrado diffusi in tutte le colline marchigiane, segnate dall’abbandono dei terreni più acclivi, la cancellazione dei sentieri interpoderali, la lavorazione meccanizzata spinta fino al limite dei fossi, che per le mutate condizioni nella gestione idrica superficiale producono erosioni verticali a volte profonde alcuni metri e coperte da vegetazione infestante, che destabilizzano i versanti che vi confluiscono. Un’agricoltura essenzialmente condotta a seminativo, tranne residui di oliveti e di orti a conduzione familiare.
L’insediamento diffuso ha subìto una lenta e inesorabile trasformazione
verso un’immagine rarefatta di periferia urbana che poco o nulla conserva di un’idea di ruralità ormai ridotta ad archeologia, in quanto leggibile solo nelle case coloniche abbandonate perché più difficilmente raggiungibili.

Su questo paesaggio in de-composizione l’obiettivo del Piano particolareggiato è, come già esposto, non quello di conservare – dato che c’è ben poco da conservare – ma al contrario quello di stimolare processi di trasformazione che migliorino l’esistente, specie negli elementi non soggetti a tutela.

Per mirare questo obiettivo il Piano si articola su due livelli: il livello delle regole, che corrisponde alla dimensione consueta del Piano urbanistico volta a regolamentare gli usi del suolo e le attività di costruzione, ed il livello del progetto, che delinea le modalità di trasformazione del paesaggio cercando di stimolarne l’attuazione, agendo di concerto con chi vive ed opera all’interno del paesaggio stesso.

Sul livello delle regole sono state introdotte alcune novità rispetto al modo consueto di individuare e gestire l’oggetto delle norme. Oltre alla revisione e aggiornamento delle classificazioni qualitative degli edifici rurali meritevoli di tutela, una particolare attenzione è stata data agli edifici non tutelati che, in quanto svincolati da ogni obbligo formale, hanno prodotto architetture per lo più dequalificanti, per banalità e de-contestualizzazione delle soluzioni. Partendo dal fatto che oggi l’attività edilizia si esplica essenzialmente attraverso interventi di ristrutturazione sostenuti da bonus fiscali, è stata impostata una normativa che agisce per ‘componenti edilizie’ andando a indirizzare i nuovi interventi verso l’uso di materiali, colori e soluzioni architettoniche meno estranee al contesto locale stimolando la reinterpretazione della tradizione costruttiva così da riconnettere il filo spezzato della continuità storica.

Anche nella determinazione del vincolo per le case coloniche, attraverso
l’interlocuzione con le proprietà, si è cercato di inserire nel giudizio di valore
l’obiettivo concreto del recupero. Per semplificare, diciamo che l’applicazione di un vincolo di conservazione integrale ad un edificio che mantiene caratteri storico-testimoniali di interesse va definito anche in funzione della reale possibilità che il recupero avvenga. L’obiettivo è il recupero, non la norma che regola il recupero. Se la costruzione ha una finalità turistica posso portare la proprietà a convincersi che l’integrità della tutela dell’edificio, all’esterno quanto all’interno, costituisce un valore economico che il turista è disposto a pagare. Di conseguenza il recupero ha condizioni reali per potersi effettuare ed il valore dell’integrità dei caratteri storici della costruzione sarà disponibile ai visitatori e quindi, in qualche modo, pubblicamente fruibile. Ma se quella stessa costruzione ha una finalità abitativa per il proprietario
l’integrità del vincolo sarà un peso e tenderà a tradirla, specie nella parte interna che, in quanto destinata ad uso privato, è lecito desiderare di adattare alle proprie esigenze. Inoltre l‘interno non sarà pubblicamente fruibile e l’integrità del recupero non lo vedrà nessuno. Allora forse è preferibile attestarsi sul rispetto dell’immagine esterna dell’edificio o sul mantenimento di un generale assetto strutturale, lasciando che gli spazi possano essere adattati alle esigenze di chi ci vive. Il rischio di una norma che non comprende le reali possibilità di applicazione o che se ne disinteressa, è quello che il proprietario non intervenga e, come purtroppo accade spesso, lasci che l’edificio crolli, per poi utilizzare il diritto della volumetria e realizzarla con la libertà desiderata. In questo caso la norma definita con l’intento di tutelare il bene diviene causa della perdita
del bene stesso.

Accanto alla reinterpretazione del vincolo in senso pragmatico il Piano
però allarga il concetto di vincolo ad una dimensione paesaggistica. Il vincolo di tutela sugli elementi del paesaggio è emanazione di una certa cultura storico-archeologica, che anima ancora oggi le soprintendenze, che si rivolge al singolo oggetto storico, trattato come un vero ‘reperto’ isolato, schedabile ed archiviabile, fondamentalmente indifferente al suo intorno. Accade così che si tutela la casa colonica ma non la pertinenza, non l’aia che della casa è spazio integrante seppure privo di mura, né il rapporto con il campo coltivato e con i sentieri e le strade camporili. Ne consegue che nella maggior parte dei casi le abitazioni rurali, recuperate anche in modo rispettoso delle norme, siano invisibili o decontestualizzate, oggetti di archeologia come quei cippi lapidei trovati nei campi ed esposti magari come sostegno di un tavolo da giardino o come le consuete pietre da macina appoggiate a una parete.

Il Piano non intende imporre l’apertura dello spazio privato esterno all’abitazione a chi oggi vive l’abitare in modo del tutto diverso a quello dei contadini d’epoca leopardiana ma è pur necessario tornare a distinguere un modo di abitare urbano da un modo di abitare rurale. Questa distinzione vuole essere motivo di discussione con i privati che abitano in questo territorio per trovare insieme un modo attuale di interpretare la ruralità, nell’obiettivo di ritrovare però quei suoni, quelle sensazioni, così magnificamente descritte da Leopardi e che oggi sono scomparse. A questa idea di ruralità si rivolge anche l’intenzione di riaprire i vecchi sentieri camporili, così da consentire di tornare alla libertà di passeggiare, attraversare, la campagna. Pratica ormai impossibile che avrebbe però, a Recanati, una straordinaria valenza di interesse turistico.
Le novità introdotte nel livello delle regole hanno la necessità di essere calibrate attraverso un dialogo puntuale con la comunità che vive ed opera in quel
territorio. Ed è questa partecipazione attiva che apre alla possibilità di inserire nel Piano il secondo livello, quello del progetto.

Parlando di progettazione partecipata è bene chiarire, per chi non è introdotto nel tema e nella pratica partecipativa, che non si tratta di ‘far progettare la gente’ perché la progettazione richiede esperienze e competenze di cui la ‘gente’ non dispone, una capacità di sintesi e di messa a sistema dei diversi aspetti che richiede un talento ed una pratica non usuali. Il progetto, nella partecipazione, continuano a farlo gli architetti, ma lo fanno ascoltando e facendo proprie le esigenze e le ‘speranze’ di chi vive in quel contesto e sarà chiamato ad esser artefice del nuovo paesaggio immaginato.
Alla fine la bontà del progetto si misurerà sia nella qualità disciplinare del risultato della progettazione, sia nella misura della condivisione di quella progettazione, di quanto cioè i residenti sentano quella progettazione come espressione di sé e vi si riconoscano.
Il progetto partecipato nasce da un ‘metaprogetto’, ed è l’architetto, assieme al lavoro integrato degli altri esperti delle discipline attinenti il territorio, che imposta questo primo disegno sulla base di una rilettura del territorio attraverso gli orizzonti e le strategie che sono il prodotto del dibattito culturale sulle politiche ambientali, a livello istituzionale, universitario, o comunque disciplinare.

È un progetto che indirizza il successivo confronto partecipativo verso prospettive di cambiamento che sono le stesse evocate dagli strumenti di finanziamento europeo. Prospettive che parlano di valorizzazione dei territori, di potenziamento delle biodiversità, di buone pratiche agricole, di ecologia, di salute, di riduzione degli sprechi e di corretto uso delle risorse, di interesse verso la sfera sociale e anche verso l’occupazione in nuove attività sostenibili, di cultura e di turismo.

Entra, ad esempio in questa metaprogettazione, il processo di adeguamento alla Rete Ecologica Marchigiana guidato dal prof. Fabio Taffetani che ha individuato e caratterizzato le nuove presenze vegetazionali assieme alle carenze negli elementi primari (vegetazione ripariale, macchie boschive consolidate) definendo, accanto alla legenda disciplinare di tipo botanico, una più fine legenda ‘operativa’ che indichi che cosa è giusto fare per tutelare ed incrementare in modo corretto quelle presenze.
Assieme agli aspetti vegetazionali nella tavola del ‘progetto di piano’ sono indicati i fossi o le aree soggette a problemi di carattere idrogeologico in cui è urgente intervenire, i percorsi e sentieri storici da riattivare, gli elementi costruiti che determinano particolare impatto e che quindi necessitano di una mitigazione o di possibilità di trasformazioni migliorative. Sono indicati gli edifici che conservano un rapporto aperto di tipo ‘rurale’ con la pertinenza e i campi circostanti, i possibili luoghi di sosta panoramici lungo gli itinerari che attraversano il territorio, le fonti, le previsioni di piano verso usi impropri (produttivi e per depositi all’aperto) da convertire ad usi a servizio del turismo ed occasione di recupero ambientale delle aree.

Le indicazioni riportate sulla cartografia di progetto si accompagnano anche ad indicazioni semplicemente enunciate volutamente in modo incompleto perché oggetto di discussione partecipata, come il ‘desiderio’ di un’agricoltura più ricca ed estesa a colture della tradizione, alla possibilità di elaborare prodotti derivati da tali colture, di un ritorno degli animali da cortile e da lavoro, dei segni reinterpretati della tradizione agricola locale, dai pagliai alle recinzioni di cannucciaie e siepi di spina christi.
Tutte queste indicazioni esulano dal campo d’azione proprio dell’urbanistica perché non possono essere imposte attraverso leggi e norme. Ma non per questo devo giustificarne l’assenza o limitarmi di una loro enunciazione velleitaria destinata a rimanere sulla carta.

La recente evoluzione delle tecniche urbanistiche verso le forme di intesa
pubblico-privato, ed i progetti integrati, consentono di percorrere una nuova via che può incidere davvero sui cambiamenti evocati e renderli concreti, attuabili.

Certo si tratta di un percorso impegnativo, coinvolgente, incerto nel risultato finale, ma che oggi non possiamo non percorrere se davvero convinti che la tutela dei valori, della bellezza, abbia un senso e che possiamo tornare a produrre opere d’arte in tutta umiltà, nella pratica corrente del nostro fare divenuto finalmente ‘fare consapevole’.


L’intesa è la forma vera di attuazione del livello del progetto nel Piano particolareggiato del Colle dell’Infinito.

La seconda fase del Piano, dopo la prima stesura per mano dei tecnici, prevede la discussione con ciascuno dei 140 circa proprietari di terreni o case
nell’area del Piano. Si tratta di un’occasione per spiegare in modo personale e
accurato la filosofia del Piano chiedendo di condividerla, di comprenderne le
potenzialità future attraverso lo sviluppo della fase laboratoriale, ma si tratta
soprattutto, da parte dei progettisti, di ascoltare le esigenze, le idee e le storie di quelle persone che sono parte viva del paesaggio che andiamo sognando, e senza i quali quel sogno è impossibile o velleitario. L’intento è quello di favorire le esigenze o i desideri di chi vive il territorio nei limiti posti dalle Leggi e dai vincoli di tutela cecando però di convincere sui modi della risposta e sulla opportunità di associare alla trasformazione di interesse privato anche alcune trasformazioni di interesse collettivo, all’attuazione di parti di quel metaprogetto che abbiamo posto come prospettiva di discussione comune.
Questo è il momento in cui davvero si progetta insieme al privato e spetta
al progettista del Piano, e al suo staff di esperti, indirizzare il progetto verso un risultato soddisfacente ovvero chiudere il lavoro senza risultato, negando l’opzione di trasformazione avanzata dal privato. L’importante è che il processo, l’incontro, avvenga nella massima trasparenza, affinché il diniego all’uno e l’intesa con l’altro non generi contestazioni o accuse di sperequazioni. E d’altra parte l’ultima voce, in sede di approvazione del Piano, spetta alla parte politica.

Questo approccio dialogante non nega affatto la validità dei vincoli, ma non si può nascondere il fatto che ne stimoli una diversa interpretazione. Se le norme di tutela si sono rivolte alla limitazione del fare, interessandosi in particolare delle ‘quantità’ edilizie, l’attenzione si sposta qui verso la ‘qualità’. Ciò comporta inevitabilmente una sollecitazione del limite quantitativo del vincolo. Vale a dire che se oggi l’efficacia della pianificazione, in termini di tutela paesaggistica, si misura nella capacità di impedire incrementi di volume e conservare il più possibile lo status quo, la nuova concezione della pianificazione che sottintende il Piano Particolareggiato del Colle dell’Infinito misura la sua efficacia nella capacità di determinare una situazione ex post che sia migliore sotto tutti gli aspetti a quella ex ante, che determini quindi una qualificazione
del paesaggio. Se per ottenere questa nuova configurazione mi trovo a concedere un piccolo ampliamento o un riposizionamento di volume edilizio ma verificato il risultato finale questo è migliorativo, anche in termini di architettura, materiali, aderenza alle tradizioni costruttive, perché non consentirlo? Se consideriamo che spesso il vincolo coinvolge anche edifici formalmente brutti o impropri ed è proprio la trasformazione in qualcosa di migliorativo l’obiettivo da perseguire come pensiamo di raggiungerlo se precludiamo una forma di interesse, una motivazione per cui il privato intraprenda quella trasformazione? Allo stesso modo, di fronte all’esigenza produttiva di un’azienda agricola che vuole intraprendere un’attività di trasformazione dei suoi prodotti in linea
con le pratiche dell’agricoltura sostenibile, della filiera corta agroalimentare, un’attività che può produrre occupazione e creare servizio al turismo locale, perché devo apriori negare la possibilità di realizzare un piccolo manufatto si servizio o devo trovarmi a dover ricorrere a strumenti di ‘deroga’, come lo Sportello Unico per le Attività Produttive in variante al Piano? Non è forse preferibile e più controllabile sviluppare una progettualità condivisa e concedere quel manufatto dopo averne controllato forma, dimensioni, qualità architettonica e inserimento nel paesaggio, senza ricorrere a palliativi?

Queste considerazioni sono oggi sottomesse al rispetto delle norme ma sono certamente destinate a intaccare e corrodere l’impostazione dogmatica del modo tradizionale di fare urbanistica per aprirsi, con più coraggio e forse con più competenza e consapevolezza, al confronto dialogico ed alla dimensione prioritaria del progetto.

Sotto l’aspetto attuativo i due livelli del Piano corrispondono a due diverse
prassi: l’attuazione diretta da parte del soggetto privato nel rispetto delle norme l’attuazione indiretta, attraverso un piano di recupero proposto in modo
autonomo o costruito assieme alla pubblica amministrazione.

Nel caso del piano di recupero, quando si chiede di andare oltre l’applicazione più restrittiva delle norme, il piano deve assumere anche alcune componenti di attuazione indicate del metaprogetto per la riqualificazione del paesaggio. Se ad esempio in un determinato terreno in cui si chiede una modifica edilizia, oltre alla qualità architettonica della modificazione stessa, si può concordare il rispristino di un tratto di sentiero storico precisandone il tracciato o la realizzazione di una siepe naturale a integrazione di una recinzione, un intervento di cura di una parte di bosco. In caso si tratti di aziende agricole si può discutere la riapertura di un fosso naturale cancellato o l’alberatura del fosso stesso e l’accordo per renderlo transitabile in una fascia di tre metri dalla sponda, o l’inserimento di animali da cortile ed elementi della tradizione agricola. Ogni intervento diviene così un tassello della costruzione del paesaggio immaginato e pertanto la spinta del Piano è che si attui il maggior numero di
interventi.

Le proprietà che nel discutere la fase partecipativa rappresenteranno la necessità e la possibilità di intervenire in tempi definiti, entro tre-quattro anni dall’entrata in vigore del Piano, avranno l’opportunità di definire da subito il progetto condiviso che diventerà una scheda progetto inserita già nel Piano, senza necessità di rimandare a successivi piani di recupero dispendiosi tanto in termini di costi che di tempo.
E così, nella fase di costruzione del Piano si attiva di fatto già il Laboratorio
che ne gestirà lo slancio immaginario Quando si incontrano i singoli proprietari viene dato loro un ‘manifesto di intenti’ nel quale si chiede di condividere la nuova modalità di approccio partecipato al Piano e, in particolare, di alcune possibili attività che vedano i privati e l’amministrazione comunale collaborare per acquisire finanziamenti
e costruire parti del paesaggio immaginato oltre il Piano, rendendole concrete nella compagine sociale recanatese.

L’adesione a queste intenzioni è pressoché totale da parte dei proprietari
che concordano nel tentare di costruire una filiera corta locale, che garantisca maggiore reddittività attraverso l’introduzione di nuove colture, e nuovi prodotti destinati al consumo dei turisti presso le strutture ricettive locali o dei recanatesi stessi attraverso la distribuzione nei mercati di quartiere o la possibilità di andare presso i produttori, magari a piedi o in bici. Allo stesso modo mostrano interesse ad ottenere finanziamenti per entrare nel circuito del biologico, per gestire in forma consortile la manutenzione dei fossi, con cure svolte stagionalmente, dopo aver realizzato interventi di ripristino attraverso l’accordo agroambientale d’area, sempre in concorso con l’amministrazione.
E durante gli incontri si parla già di aprire tratturi per le passeggiate a cavallo, o di implementare spazi per fattorie didattiche e cultura dell’ambiente, di intese per la cessione al pubblico e la sistemazione delle aree di sosta o della riapertura delle vecchie strade vicinali.

Si lavora, si discute, si sogna nel mentre ci si conosce e si vede affermarsi,
dopo l’iniziale diffidenza, una possibile nuova intesa tra cittadino e istituzione, una fiducia sul fatto che in fondo si opera assieme per la cura della stessa terra, privata o pubblica che sia.

Alla fine di ogni incontro finiamo, noi progettisti ed i privati, col ringraziarci a vicenda.
Questo è quello che abbiamo inteso concepire come ‘paesaggio leopardiano’: un faticoso ma piacevole esercizio collettivo di immaginazione. Non so se questa sia l’interpretazione corretta anche da altri punti di vista, meno operativi e più filosofico letterari, ma in riferimento al nostro modo di concepire il paesaggio, da umili architetti, a noi sembra essere giusta. E in ogni caso, ogni volta che ci salutiamo alla fine degli incontri, dopo aver immaginato insieme un paesaggio – e un mondo – possibile, scambiandoci reciproci ringraziamenti, penso che Giacomo sia lì con noi, e sorrida.



[1]  Franco Farinelli, L’arguzia del paesaggio, in Il disegno del paesaggio italiano. The design of the Italian
landscape
, «Casabella», DLXXV/DLXXVI, 1991, pp. 10-12.

 


domenica 23 luglio 2017

Castelluccio merita qualcosa di più della solita squallida speculazione

Riprendo questo blog, che avevo ormai quasi abbandonato, per offrire a chi realmente vuole capire la questione dei Castelluccio - e non fingere di farlo - alcuni strumenti di valutazione attorno al progetto del "deltaplano": il centro commerciale (perchè è inequivocabilmente un centro commerciale) pensato ai piedi della collina dove sorge il paese e dove questa incontra il Piano Grande.
Cercherò di spiegare perchè sostengo che si può e si deve fare altro se si vuole garantire ai residenti di Castelluccio, e sopratuttto agli operatori economici, di svolgere le loro attività anche nella fase dura della ricostruzione, che si preannuncia lunga e faticosa.
Cercherò di spiegare come questa operazione - il deltaplano - non sia che la continuazione di un processo di urbanizzazione della bassa collina di Castelluccio che nulla ha a che vedere con l'obiettivo di ridare vitalità al centro abitato, ma che si inquadra nei soliti processi di speculazione edilizia e di occupazione-valorizzazione economica dei suoli. Processi del tutto uguali qui, in un Parco Nazionale e in un luogo paesaggisticamente tra i più preziosi al mondo, come in una qualsiasi periferia delle noste città.

Il centro abitato di Castelluccio si è formato con un intimo legame alle attività di pastorizia e di coltivazione di legumi sui piani.
Ai margini del castello, in cui erano concentrate le strutture abitative , erano disposte le stalle lungo le vie di collegamento con i campi e i sentieri che conducevano ai pascoli. Nella carta del catasto gregoriano (1825 circa) le stalle si denotano come i corpi allungati lungo le strade e frazionati in piccole porzioni di proprietà.

In questa immagine aerea rielaborata, in modo da farla assomigliare ad una situazione precedente alla fine del '900, ho evidenziato le medesime stalle (in rosso), gran parte delle quali erano in disuso o crollate ancora prima del terremoto.
Percè ho modificato la foto? Perche intorno all'anno 2000, nel mentre si discuteva della ricostruzione dal terremoto del '97 e si stava redigendo il Piano del Parco, scoppiò la contesa attorno alla realizzazione delle stalle.
Vi fu un acceso dibattito dove da un lato c'era chi sostenenva che si dovessero e potessero recuperare le vecchie stalle (magari ampliandole ma mantenendo la stessa logica insediativa e, possibilmente, lo stesso linguaggio architettonico) e chi voleva costruirne di nuove sul versante nord (ma non è il versante più freddo? Non è quindi inidoneo a tenere gli animali in inverno?). La politica si unì ad alcuni castellucciani che sostenevano questa seconda ipotesi.
Il risultato fu la costruzione delle stalle, che si aggiunse al progetto della nuova piazza (con i parcheggi interrati) ed alle precedenti realizazioni puntuali di un paio di baite e di un allevamento isolato. Più di recente a queste "cose" si aggiunse, poco distante, l'impianto di fitodepurazione, così da determinare lo stato attuale (pre-terremoto nelle foto).
Sempre prima del terremoto le vecchie stalle (in rosso) erano sempre inutilizzate e mezze crollate. Con il terremoto sono crolllate quasi del tutto.
Ora, con ilterremoto 2017, si ripete l'esigenza di occupare nuovo suolo - sempre nella stessa zona alla base della collina - per costruire gli esercizi commerciali inagibili in paese.
Il progetto del deltaplano viene presentato come una necessità vitale - l'unica possibile o comunque l'unica valutata - per "la sopravvivenza dei castellucciani".
Ciò che va attentamente valutata è la posizione del complesso, ma anche l'estensione dell'area coinvolta .
Dalle spiegazioni del porgettista si evince che l'area sia assai più ampia di quella realtiva al solo sedime degli edifici.

si tratta di un'occupazione di suolo notevole. Di chi è la proprietà? Da chi verrà acquistata? Sarà forse comprata dalla Regione Umbria? A che prezzo?
Queste domande - pur legittime - interessano però poco l'aspetto architettonico e paesaggistico della vicenda.
Ciò che invece ci preme capire è il processo in corso, che sembra essere in perfetta continuità con la vicenda delle stalle e tendente ad una completa urbanizzazione dell'area....

Dal punto di vista paesaggistico sostenere - come sostiene la Regione Umbria - che l'intervento non determinerà impatto sui Piani è sciocco come negare l'evidenza dei fatti:











Stabilito quindi che l'allarme sul progetto del centro commerciale non è una "bufala" - come tentava maldestramente di far credere la Regione Umbria - perchè di centro commerciale si tratta - e stabilito anche che il progetto non segue la logica insediativa dell'abitato storico comportando altresì un notevole impatto paesaggistico nel Pian Grande e nell'immegine stessa di Castelluccio, occorre ora cercare di capire se sia questa l'unica soluzione possibile per garantire alle attività di Castelluccio di continuare a lavorare durante la fase della ripostruzione o se non ce ne siano delle altre, e se queste altre siano magari anche migliori sotto il profilo paesaggistico, economico, turistico etc....

Io, ragionando per come mi è stato insegnato nella disciplina dell'architettura ne ho individuate almeno due, che ritengo siano senza dubbio preferibili a quella del "deltaplano". Ma forse altri architetti potrebbero individuarne ancora...

SOLUZIONE 1  -   il recupero delle vecchie stalle.

La prima soluzione ritorna su quella che già fu proposta ( e scaratata dala politica ) per la vicenda delle stalle.
L'idea è quella di non disperdere economie in manufatti che si dicono essere temporanei (ma hanno bisogno di fior di urbanizzazioni) per poi doverli rimuovere... ma di costruire un pezzo del paese da subito: le parti esterne relative alle antiche stalle.



La dimensione dell'intervento del deltaplano coincide con l'area delle stalle nel settore orientale del paese (poco più su dell'area del deltaplano). Ma si potrebbe pensare anche di velocizzare la realizzazione del comparto sopra lo spiazzo di ingresso al paese.  Le nuove costruzioni -concepite come soluzioni defintive - potrebbero ospitare temporaneamente i ristoranti per poi essere convertite a diverse funzioni (ricettive, commerciali, a servizio degli allevamenti edell'agricoltura, residenziali..etc...). Un modo per non sprecare inutilmente risorse e "stare" davvero nel paese.

SOLUZIONE 2 - le strutture davvero temporanee

la seconda soluzione affronta con più onestà il tema ella temporaneità delle strutture.
Se le strtuture devono essere temporanee esistono molte soluzioni - anche ineressanti dal punto di vista architettonico - per concepire insediamenti "mobili" in legno o che utilizzino l'adeguaento dei containers. Si veda ad esempio l'eccellenza tutta italiana del progetto di un villaggio con alloggi derivati da containers redatto dello studio Tamassociati per Emergency in Sudan.
La collocazione sui piani di nuclei di servizio per ristoranti e attività commerciali non farebbe che seguire la tradizione delle strutture temporanee da sempre presenti sui piani per le attività agricole o per lo svago (affitto cavalli, raduni deltaplanisti etc...)










Più in generale - se davvero si vuole promuovere il bene di Castelluccio e dei castellucciani - ritengo che non servano nuovi insediamenti quanto la presenza di gente che sale ai Piani di Castelluccio...e forse sarebbe bene che i luoghi di concentrazione dei turisti fossero diffusi nei piani, magari in prossimità dei valichi, piuttosto che condensati in un unico luogo.
La frequentazione dei Pani sarà garantita più dall'organizzazione di eventi, anche e soprattutto nel periodo invernale, piuttosto che dalla formazione di centri commerciali sul modello di quelli che troviamo nelle città.
Belle ed evocative le immagini della Festa della montagna del 1961....   Un mare di gente sul Pian grande:  come ci erano arrivati? La maggior parte senza l'auto, a piedi. Eppure erano saliti in migliaia su a Castelluccio...


L'importante è "esserci", non "costruirci".



















giovedì 23 febbraio 2017

Tor di valle e l'ambientalismo relativo

La stampa sta portando all'attenzione del Paese la questione del nuovo Stadio della Roma come se da questa, e non dalla crisi del lavoro e dell'occupazione, dipendesse il futuro degli italiani.
E' un fatto strano, insolito, perchè abitualmente le grandi speculazioni urbane vengono passate sotto silenzio. Ideate, gestite e realizzate cercando di fare meno clamore possibile.
Certo qui c'è di mezzo la vicenda Raggi, la fastidiosa presenza dei 5 stelle piombati nel bel mezzo della "tavolata" romana, promettendo rigore e cibi vegani a chi è storicamente incline ai banchetti a base di grandi portate di abbacchio e pajata.
Cio che mi ha colpito in questa noiosa vicenda non è l'atteggiamento dei prim'attori, o le clamorose dimissioni di Berdini invischiatosi nelle trame di Palazzo,o l'attesa per l'atteggiamento che terranno Grillo e i suoi ragazzi.
Mi ha colpito la presa di posizione del mondo ambientalista. La profonda spaccatura tra chi vede nell'operazione nient'altro che l'ennesima speculazione immobiliare nel cuore della capitale e chi invece ne tesse le lodi, come esempio di un ambientalismo "possibile", che a conti fatti concilia l'incremento di verde e di ossigeno con la crescita del PIL.
Un personaggio come Roberto Della Seta non è un ambientalista qualsiasi. Presidente di Legambiente dal 2003 al 2007. Uno dei massimi esponenti di quell'ambientalismo di sinistra che professa la possibilità, anzi la necessità di sviluppare un ecologismo che stimoli la crescita e la produttività. Ideologo dello "sviluppo sostenibile" dove la sostenibilità è chiaramente aggettivazione dello sviluppo che resta un paradigma irrinunciabile, esattamente come in ogni  espressione del capitalismo economico.E' evidente che il termine "ambiente" assume significati diversi nei due fronti opposti del mondo ambientalista, tra chi difende l'operazione dello Stadio e chi vi si oppone.
Quel'è questa differenza?  Mi sono posto più volte questa domanda e sono giunto alla conclusione che la differenza sta nel sistema di riferimento in cui si colloca il termine "ambiente".
Per alcuni "fondamentalisti" dell'ecologia l'ambiente assume un valore assoluto. Fulcro dello spazio in cui noi stessi abitiamo come elementi secondari e dipendenti, sebbene in grado di perturbarlo intensamente.  Per quelli come  Della Seta l'ambiente è invece qualcosa che ha a che fare con lo scenario in cui si muove il fattore centrale del Sistema che è l'uomo. Così che l'uomo può "gestire" l'ambiente misurandone i valori e ricomponendone i fattori a piacimento. Essere ambientalisti, in questa visone relativa dello spazio, significa in sostanza sostenere tutte quelle modificazioni della realtà ex ante che producano effetti globamente migliorativi in tutti i parametri che ho assunto per descrivere l'ambiente.  Per l'ambientalista fondamentalista l'operazione dello Stadio è contraria ai principi ed alle leggi di Natura (insiste su un'area esondabile, consuma suolo, cementifica etc...). Per l'ambientalismo relativo, libero da valori assoluti e da tabù, l'operazione Stadio è buona, perchè bonifica un'area dall'amianto, incrementa il numero di alberi, si produce da sè gran parte dell'energia di cui ha bisogno...
Io non entro nella diatriba tra le due fazioni del mondo ambientalista. Mi limito a rilevare come la recente enciclica di Papa Francesco "Laudato sì" abbia fatto una decisa quanto sorprendente scelta di campo, schierandosi tra il fondamentalismo ecologista e rivendicando la centralità del Creato rispetto alle singole creature, dove l'uomo compare al livello degli altri esseri viventi.
Ma poichè io sono un architetto e in questo blog si parla di architettura, intendo entrare nella questione che ho aperto rivendicando la presenza dell'architettura, in quanto espressione di bellezza delle forme del costruito, all'interno della definizione di "ambiente".
Allora, se accettiamo l'idea che anche la bellezza dell'architettura faccia parte dell'ambiente in cui viviamo, qualcosa - da architetti - possiamo dirlo sulla vicenda di Tor di Valle. A comiciare dal notare che Tor di Valle non è un  "niente" in attesa di essere occupato da qualcosa. Al centro dell'ansa del Tevere, alla fine degli anni '50 l'architetto Julio Lafuente edificò la tribuna dell'ippodromo. Si tratta di un'architettura dalla straordinaria eleganza. con la sottilissima tettoia che si apre come un ombrello silla tribuna a sbalzo. 




Poche architetture di impianti sportivi al mondo  hanno una forza espressiva di questa portata. Ebbene i fautori del nuovo Stadio considerano quest'opera di architettura un rudere da abbattere per fare spazio alla "vera architettura" espressa dal nuovo stadio e dalle tre torri di Libeskind (che le ripropone un pò dappertutto nel mondo, tanto il decostruttivismo consente di mandare "a culo il contesto", come diceva Rem Koolhaas).


Ecco. E'questo che mi fa paura della visone degli ambientalisti relativi: il loro attribuire valori all'ambiente che escludano concetti non misurabili oggettivamente come la bellezza, l'affetto, il significato dei luoghi o, appunto, il contesto.  Come è possibile che non ci si accorga che Roma è una città orizzontale dove ancora domina la Cupola di San Pietro o il Colosseo e che quindi realizzare tre grattacieli stravolgerebbe il volto della città? Come non accorgersi del valore della tribuna di Lafuente considerandola vecchiume da abbattere?
Questo non considerare le cose "non misurabili" - che tuttavia esistono - è una forma anch'essa di fondamentalsimo. Un fondametalismo anti-episteme, che nega gli eterni per un relativismo assoluto che finisce per essere esso stesso, in quanto assoluto, idolatria. Fede cieca nella scienza e nella tecnica come espressione dell'onnipotenza umana.
Se non siamo più in grado di riconoscere la bellezza dell'architettura di Lafuente, chi ci garantirà che domani non si misconosca la bellezza della Domus Aurea, o del Pantheon, proponendo di sostituirlo con un fast food, magari ecologico perchè a kilometri zero?