domenica 23 luglio 2017

Castelluccio merita qualcosa di più della solita squallida speculazione

Riprendo questo blog, che avevo ormai quasi abbandonato, per offrire a chi realmente vuole capire la questione dei Castelluccio - e non fingere di farlo - alcuni strumenti di valutazione attorno al progetto del "deltaplano": il centro commerciale (perchè è inequivocabilmente un centro commerciale) pensato ai piedi della collina dove sorge il paese e dove questa incontra il Piano Grande.
Cercherò di spiegare perchè sostengo che si può e si deve fare altro se si vuole garantire ai residenti di Castelluccio, e sopratuttto agli operatori economici, di svolgere le loro attività anche nella fase dura della ricostruzione, che si preannuncia lunga e faticosa.
Cercherò di spiegare come questa operazione - il deltaplano - non sia che la continuazione di un processo di urbanizzazione della bassa collina di Castelluccio che nulla ha a che vedere con l'obiettivo di ridare vitalità al centro abitato, ma che si inquadra nei soliti processi di speculazione edilizia e di occupazione-valorizzazione economica dei suoli. Processi del tutto uguali qui, in un Parco Nazionale e in un luogo paesaggisticamente tra i più preziosi al mondo, come in una qualsiasi periferia delle noste città.

Il centro abitato di Castelluccio si è formato con un intimo legame alle attività di pastorizia e di coltivazione di legumi sui piani.
Ai margini del castello, in cui erano concentrate le strutture abitative , erano disposte le stalle lungo le vie di collegamento con i campi e i sentieri che conducevano ai pascoli. Nella carta del catasto gregoriano (1825 circa) le stalle si denotano come i corpi allungati lungo le strade e frazionati in piccole porzioni di proprietà.

In questa immagine aerea rielaborata, in modo da farla assomigliare ad una situazione precedente alla fine del '900, ho evidenziato le medesime stalle (in rosso), gran parte delle quali erano in disuso o crollate ancora prima del terremoto.
Percè ho modificato la foto? Perche intorno all'anno 2000, nel mentre si discuteva della ricostruzione dal terremoto del '97 e si stava redigendo il Piano del Parco, scoppiò la contesa attorno alla realizzazione delle stalle.
Vi fu un acceso dibattito dove da un lato c'era chi sostenenva che si dovessero e potessero recuperare le vecchie stalle (magari ampliandole ma mantenendo la stessa logica insediativa e, possibilmente, lo stesso linguaggio architettonico) e chi voleva costruirne di nuove sul versante nord (ma non è il versante più freddo? Non è quindi inidoneo a tenere gli animali in inverno?). La politica si unì ad alcuni castellucciani che sostenevano questa seconda ipotesi.
Il risultato fu la costruzione delle stalle, che si aggiunse al progetto della nuova piazza (con i parcheggi interrati) ed alle precedenti realizazioni puntuali di un paio di baite e di un allevamento isolato. Più di recente a queste "cose" si aggiunse, poco distante, l'impianto di fitodepurazione, così da determinare lo stato attuale (pre-terremoto nelle foto).
Sempre prima del terremoto le vecchie stalle (in rosso) erano sempre inutilizzate e mezze crollate. Con il terremoto sono crolllate quasi del tutto.
Ora, con ilterremoto 2017, si ripete l'esigenza di occupare nuovo suolo - sempre nella stessa zona alla base della collina - per costruire gli esercizi commerciali inagibili in paese.
Il progetto del deltaplano viene presentato come una necessità vitale - l'unica possibile o comunque l'unica valutata - per "la sopravvivenza dei castellucciani".
Ciò che va attentamente valutata è la posizione del complesso, ma anche l'estensione dell'area coinvolta .
Dalle spiegazioni del porgettista si evince che l'area sia assai più ampia di quella realtiva al solo sedime degli edifici.

si tratta di un'occupazione di suolo notevole. Di chi è la proprietà? Da chi verrà acquistata? Sarà forse comprata dalla Regione Umbria? A che prezzo?
Queste domande - pur legittime - interessano però poco l'aspetto architettonico e paesaggistico della vicenda.
Ciò che invece ci preme capire è il processo in corso, che sembra essere in perfetta continuità con la vicenda delle stalle e tendente ad una completa urbanizzazione dell'area....

Dal punto di vista paesaggistico sostenere - come sostiene la Regione Umbria - che l'intervento non determinerà impatto sui Piani è sciocco come negare l'evidenza dei fatti:











Stabilito quindi che l'allarme sul progetto del centro commerciale non è una "bufala" - come tentava maldestramente di far credere la Regione Umbria - perchè di centro commerciale si tratta - e stabilito anche che il progetto non segue la logica insediativa dell'abitato storico comportando altresì un notevole impatto paesaggistico nel Pian Grande e nell'immegine stessa di Castelluccio, occorre ora cercare di capire se sia questa l'unica soluzione possibile per garantire alle attività di Castelluccio di continuare a lavorare durante la fase della ripostruzione o se non ce ne siano delle altre, e se queste altre siano magari anche migliori sotto il profilo paesaggistico, economico, turistico etc....

Io, ragionando per come mi è stato insegnato nella disciplina dell'architettura ne ho individuate almeno due, che ritengo siano senza dubbio preferibili a quella del "deltaplano". Ma forse altri architetti potrebbero individuarne ancora...

SOLUZIONE 1  -   il recupero delle vecchie stalle.

La prima soluzione ritorna su quella che già fu proposta ( e scaratata dala politica ) per la vicenda delle stalle.
L'idea è quella di non disperdere economie in manufatti che si dicono essere temporanei (ma hanno bisogno di fior di urbanizzazioni) per poi doverli rimuovere... ma di costruire un pezzo del paese da subito: le parti esterne relative alle antiche stalle.



La dimensione dell'intervento del deltaplano coincide con l'area delle stalle nel settore orientale del paese (poco più su dell'area del deltaplano). Ma si potrebbe pensare anche di velocizzare la realizzazione del comparto sopra lo spiazzo di ingresso al paese.  Le nuove costruzioni -concepite come soluzioni defintive - potrebbero ospitare temporaneamente i ristoranti per poi essere convertite a diverse funzioni (ricettive, commerciali, a servizio degli allevamenti edell'agricoltura, residenziali..etc...). Un modo per non sprecare inutilmente risorse e "stare" davvero nel paese.

SOLUZIONE 2 - le strutture davvero temporanee

la seconda soluzione affronta con più onestà il tema ella temporaneità delle strutture.
Se le strtuture devono essere temporanee esistono molte soluzioni - anche ineressanti dal punto di vista architettonico - per concepire insediamenti "mobili" in legno o che utilizzino l'adeguaento dei containers. Si veda ad esempio l'eccellenza tutta italiana del progetto di un villaggio con alloggi derivati da containers redatto dello studio Tamassociati per Emergency in Sudan.
La collocazione sui piani di nuclei di servizio per ristoranti e attività commerciali non farebbe che seguire la tradizione delle strutture temporanee da sempre presenti sui piani per le attività agricole o per lo svago (affitto cavalli, raduni deltaplanisti etc...)










Più in generale - se davvero si vuole promuovere il bene di Castelluccio e dei castellucciani - ritengo che non servano nuovi insediamenti quanto la presenza di gente che sale ai Piani di Castelluccio...e forse sarebbe bene che i luoghi di concentrazione dei turisti fossero diffusi nei piani, magari in prossimità dei valichi, piuttosto che condensati in un unico luogo.
La frequentazione dei Pani sarà garantita più dall'organizzazione di eventi, anche e soprattutto nel periodo invernale, piuttosto che dalla formazione di centri commerciali sul modello di quelli che troviamo nelle città.
Belle ed evocative le immagini della Festa della montagna del 1961....   Un mare di gente sul Pian grande:  come ci erano arrivati? La maggior parte senza l'auto, a piedi. Eppure erano saliti in migliaia su a Castelluccio...


L'importante è "esserci", non "costruirci".



















giovedì 23 febbraio 2017

Tor di valle e l'ambientalismo relativo

La stampa sta portando all'attenzione del Paese la questione del nuovo Stadio della Roma come se da questa, e non dalla crisi del lavoro e dell'occupazione, dipendesse il futuro degli italiani.
E' un fatto strano, insolito, perchè abitualmente le grandi speculazioni urbane vengono passate sotto silenzio. Ideate, gestite e realizzate cercando di fare meno clamore possibile.
Certo qui c'è di mezzo la vicenda Raggi, la fastidiosa presenza dei 5 stelle piombati nel bel mezzo della "tavolata" romana, promettendo rigore e cibi vegani a chi è storicamente incline ai banchetti a base di grandi portate di abbacchio e pajata.
Cio che mi ha colpito in questa noiosa vicenda non è l'atteggiamento dei prim'attori, o le clamorose dimissioni di Berdini invischiatosi nelle trame di Palazzo,o l'attesa per l'atteggiamento che terranno Grillo e i suoi ragazzi.
Mi ha colpito la presa di posizione del mondo ambientalista. La profonda spaccatura tra chi vede nell'operazione nient'altro che l'ennesima speculazione immobiliare nel cuore della capitale e chi invece ne tesse le lodi, come esempio di un ambientalismo "possibile", che a conti fatti concilia l'incremento di verde e di ossigeno con la crescita del PIL.
Un personaggio come Roberto Della Seta non è un ambientalista qualsiasi. Presidente di Legambiente dal 2003 al 2007. Uno dei massimi esponenti di quell'ambientalismo di sinistra che professa la possibilità, anzi la necessità di sviluppare un ecologismo che stimoli la crescita e la produttività. Ideologo dello "sviluppo sostenibile" dove la sostenibilità è chiaramente aggettivazione dello sviluppo che resta un paradigma irrinunciabile, esattamente come in ogni  espressione del capitalismo economico.E' evidente che il termine "ambiente" assume significati diversi nei due fronti opposti del mondo ambientalista, tra chi difende l'operazione dello Stadio e chi vi si oppone.
Quel'è questa differenza?  Mi sono posto più volte questa domanda e sono giunto alla conclusione che la differenza sta nel sistema di riferimento in cui si colloca il termine "ambiente".
Per alcuni "fondamentalisti" dell'ecologia l'ambiente assume un valore assoluto. Fulcro dello spazio in cui noi stessi abitiamo come elementi secondari e dipendenti, sebbene in grado di perturbarlo intensamente.  Per quelli come  Della Seta l'ambiente è invece qualcosa che ha a che fare con lo scenario in cui si muove il fattore centrale del Sistema che è l'uomo. Così che l'uomo può "gestire" l'ambiente misurandone i valori e ricomponendone i fattori a piacimento. Essere ambientalisti, in questa visone relativa dello spazio, significa in sostanza sostenere tutte quelle modificazioni della realtà ex ante che producano effetti globamente migliorativi in tutti i parametri che ho assunto per descrivere l'ambiente.  Per l'ambientalista fondamentalista l'operazione dello Stadio è contraria ai principi ed alle leggi di Natura (insiste su un'area esondabile, consuma suolo, cementifica etc...). Per l'ambientalismo relativo, libero da valori assoluti e da tabù, l'operazione Stadio è buona, perchè bonifica un'area dall'amianto, incrementa il numero di alberi, si produce da sè gran parte dell'energia di cui ha bisogno...
Io non entro nella diatriba tra le due fazioni del mondo ambientalista. Mi limito a rilevare come la recente enciclica di Papa Francesco "Laudato sì" abbia fatto una decisa quanto sorprendente scelta di campo, schierandosi tra il fondamentalismo ecologista e rivendicando la centralità del Creato rispetto alle singole creature, dove l'uomo compare al livello degli altri esseri viventi.
Ma poichè io sono un architetto e in questo blog si parla di architettura, intendo entrare nella questione che ho aperto rivendicando la presenza dell'architettura, in quanto espressione di bellezza delle forme del costruito, all'interno della definizione di "ambiente".
Allora, se accettiamo l'idea che anche la bellezza dell'architettura faccia parte dell'ambiente in cui viviamo, qualcosa - da architetti - possiamo dirlo sulla vicenda di Tor di Valle. A comiciare dal notare che Tor di Valle non è un  "niente" in attesa di essere occupato da qualcosa. Al centro dell'ansa del Tevere, alla fine degli anni '50 l'architetto Julio Lafuente edificò la tribuna dell'ippodromo. Si tratta di un'architettura dalla straordinaria eleganza. con la sottilissima tettoia che si apre come un ombrello silla tribuna a sbalzo. 




Poche architetture di impianti sportivi al mondo  hanno una forza espressiva di questa portata. Ebbene i fautori del nuovo Stadio considerano quest'opera di architettura un rudere da abbattere per fare spazio alla "vera architettura" espressa dal nuovo stadio e dalle tre torri di Libeskind (che le ripropone un pò dappertutto nel mondo, tanto il decostruttivismo consente di mandare "a culo il contesto", come diceva Rem Koolhaas).


Ecco. E'questo che mi fa paura della visone degli ambientalisti relativi: il loro attribuire valori all'ambiente che escludano concetti non misurabili oggettivamente come la bellezza, l'affetto, il significato dei luoghi o, appunto, il contesto.  Come è possibile che non ci si accorga che Roma è una città orizzontale dove ancora domina la Cupola di San Pietro o il Colosseo e che quindi realizzare tre grattacieli stravolgerebbe il volto della città? Come non accorgersi del valore della tribuna di Lafuente considerandola vecchiume da abbattere?
Questo non considerare le cose "non misurabili" - che tuttavia esistono - è una forma anch'essa di fondamentalsimo. Un fondametalismo anti-episteme, che nega gli eterni per un relativismo assoluto che finisce per essere esso stesso, in quanto assoluto, idolatria. Fede cieca nella scienza e nella tecnica come espressione dell'onnipotenza umana.
Se non siamo più in grado di riconoscere la bellezza dell'architettura di Lafuente, chi ci garantirà che domani non si misconosca la bellezza della Domus Aurea, o del Pantheon, proponendo di sostituirlo con un fast food, magari ecologico perchè a kilometri zero?

domenica 28 febbraio 2016

Il porto non è uno showroom

I porti erano luoghi particolari di incontro, di infinite partenze ed arrivi, ma anche di libera espressione di sé fuori dal controllo delle regole. Ognuno, anche senza identità o con identità di comodo, poteva trovare un suo motivo di essere nel porto.
Anche il porto di Ancona era un luogo simile, come appare nel film Ossessione di Visconti.
Lì ciò che altrove era illecito, come l’omosessualità, otteneva una sorta di affrancamento. Ognuno manifestava se stesso, liberamente , nel porto e poteva dare sfogo ai propri piaceri, anche se considerati dalla "morale pubblica" alla stregua piccole o grandi perversioni.  Al porto era molto più facile che altrove trovare amore a pagamento.
 Questa licenziosità del porto non è più riscontrabile oggi, o almeno non lo è più in un ambito sociale definito.


Ma in fondo, nonostante lo svuotamento di genti, le barriere che dividono le banchine dalla città, i TIR e i traghetti che hanno sostituito il traffico di merci e di marinai, il porto rimane una sorta di luogo franco, dove le regole e i modi dello stare insieme delle cose lasciano spazio all’improvvisazione, alla iniziativa individuale che non deve rendere conto a nessuno, tanto meno ad una comunità che non c’è.
Se nella città siamo consapevoli della necessità di rendere coerenti le diverse azioni, i diversi progetti, per garantire una immagine urbana riconoscibile e organizzata, nel porto questa consapevolezza si allenta e la necessità, seppure temporanea, dell’agente marittimo, o dell’operatore portuale, domina su ogni tentativo di coordinamento.

Il porto appare come un ammasso di cose temporanee e in movimento. Merci, navi, auto e camion parcheggiati, gru e silos. Serve spazio, e dove c’è chi prima arriva se lo prende.
Con lo stesso atteggiamento si affastellano le iniziative per l’ammodernamento, o l’abbellimento del porto.
Sono occasioni sporadiche, dettate dall’esigenza dei croceristi, degli armatori greci o dalla possibilità di acchiappare un qualche finanziamento.

Un meraviglioso kaos. Meraviglioso perchè vero. Meraviglioso perchè - in una società ancora perbenista e ipocrita, libera gli istinti più indicibili e le voglie più nascoste nei manager come negli architetti.
Se i manager possono trovare nel porto la possibilità di esprimere la loro voglia di onnipotenza, trasformandosi in ideologi ed artisti, esperti di tutto specie di quel senso artistico soppresso in loro fin dall’infanzia  per formazione scolastica e professionale, gli architetti si sentono finalmente liberi di esprimere la loro vera natura: l'essere architetti. Una natura vissuta però come un vizio e una colpa, da dover esprimere in modo promiscuo, scevri da ogni responsabilità civile.  In modo da dare finalmente  sfogo agli istinti primari propri degli architetti, quelli che si hanno solitamente in gioventù: primo di tutto la vanità, la ricerca spasmodica dell’occasione per progettare l’opera che sia vista ed ammirata da tutti, seconda - e funzionale alla prima - è l’attitudine a servire. Quel piacere di sottomettersi finalmente al decisore forte, al committente unico, potente, riconosciuto, identificato ostinatamente con il mecenate , il signore rinascimentale che amava contornarsi di artisti  e che pertanto accredita ufficialmente come artista di corte chi lo serve, a prescindere dal risultato.

In questa nuova dimensione di liceità portuale i nuovi Comandanti - dirigenti di enti o amministratori pubblici o imprenditori marittimi - lanciano agli architetti i loro progetti perché diano loro forma e gli architetti si gettano al lavoro producendo carrellate di renderizzazioni di ardite costruzioni scopiazzate da qualche rivista, o nascoste in un cassetto per l’occasione giusta… purchè siano vestizioni alla moda, che facciano tendenza, che possano essere a loro volta pubblicate sulle riviste patinate che illustrano il futuro accanto al volto compiaciuto degli artisti che lo anticipano.

Nulla resta delle sagge parole che disse poco più di tre anni fa l’urbanista catalano Josep Acebillo, invitato a parlare del porto di Ancona. Nulla di quel suo appello a lasciar perdere l’architettura in questa fase per parlare prima del funzionamento del porto, della sua organizzazione, de suo modo di rapportarsi alla città.
Regole, condizioni, responsabilità che nessuno vuole nel porto, dove è così facile pagarsi l’amore e soddisfare le voglie.

Nessuna voce così si alza per richiamare gli architetti alla loro responsabilità, alla loro vera natura di “medici” della città e dell’architettura, che li dovrebbe portare a mettere al primo posto la salute del paziente e non l’importanza dell’operazione in funzione della propria carriera.
Gli architetti si dovrebbero rifiutare di farsi esecutori delle smanie di incompetenti amministratori e arroganti manager,  pretendendo di dare un significato al proprio operare; di partecipare, con il proprio lavoro, ad un progetto di città condiviso e giusto. Senza vergognarsi dell'architettura, senza accettare di doverla perseguire in condizioni di promiscuità.

Utopia la mia, lo so, Sogno, che diventa grottesco in una città che vive dei propri incubi.


 Feci due passi alcuni giorni fa, e come spesso faccio, per andare a ri-ammirare il Lazzaretto. 

Quel capolavoro di architettura disegnato da Vanvitelli e orrendamente deturpato dalle aggiunte ottocentesche per dare spazio ai magazzini di tabacchi…     

In qualsiasi luogo al mondo l’opera d’arte sarebbe stata prima di tutto liberata dalla sporcizia, come si sono ripulite le figure disegnate da Michelangelo nella Cappella Sistina dagli sciocchi veli aggiunti per ordine degli oscurantisti vaticani.
In qualsiasi luogo al mondo, ma non in Ancona e non nel Porto… dove la volumetria provoca più piacere della bellezza e… alla fine ha più valore.
E allora il porto diviene uno showroom per la felicità degli ebeti…  ma noi sappiamo che il porto è ben altra cosa….




Eupalino magnificamente mi dipinse le costruzioni gigantesche che s’ammirano nei porti. Esse avanzano nel mare; i bracci, d’un biancore assoluto e crudo, circoscrivono bacini assopiti e, custodendone la calma, li conservano sicuri al rigurgito delle galee riparate dalle scogliere irte e dalle dighe fragorose. (…) Questi porti, diceva il mio amico, questi vasti porti che chiarità per lo spirito: come si svolgono e come discendono verso il loro destino! Ma le meraviglie proprie del mare, e la statuaria casuale delle rive, sono liberamente offerte all’architetto dagli dèi. Tutto cospira all’effetto che sulle anime producono questi nobili stabilimenti seminaturali: la presenza dell’orizzonte puro, la nascita e il disparire d’una vela, l’emozione nel distacco dalla terra, l’inizio dei perigli, la soglia sfavillante delle contrade sconosciute; (…)”.   “Eupalino” – Paul Valèry