scrissi questo testo nel 2005, ma ancora oggi, nonostante le mutate condizioni dettate dalla crisi economica, mi sembra ponga questioni di attualità e sia utile a stimolare una riflessione sul futuro del capoluogo marchigiano.
Ancona,
Marche, Regione medio-adriatica
continuità
territoriale e specificità locale
Il luogo in cui è costruita una città, la
singolarità della situazione, ne fissa per sempre l’individualità.
Sebbene la città muti nel tempo e nel
territorio, il gesto fondativo, il riconoscimento della città nel luogo,
ri-definisce il “senso” del fatto urbano nei diversi momenti della sua storia (1).
Ancona è una emergenza
nella costa medio-adriatica.
Emerge nel mare, come Monte Cònero e αγκον
(gomito); emerge nel territorio come luogo di relazione
baricentrico nel sistema vallivo-costiero a pettine
del versante adriatico, terminale del collegamento
con l’Umbria ed il Tirreno.
La frase attribuita all’imperatore Traiano “unus
portus est Ancona” sintetizza efficacemente tale identità.
Se questa spiccata unicità caratterizza Ancona,
la distribuzione è
il paradigma dell’insediamento nel territorio che si distende alle spalle della
città e rispetto al quale l’emergenza-Ancona non ha mai saputo esprimere una
posizione di egemonìa.
L’importanza che ha storicamente avuto la
dimensione rurale nel Piceno ha favorito la stratificazione delle impronte
lasciate dalle diverse civiltà che hanno abitato questa terra nella storia;
nell’alternarsi di organizzazioni insediative di crinale e di fondovalle.
Su questa rete di villaggi disseminati in modo
coprente nel territorio si è affermata la colonizzazione agricola fondata sulla
mezzadria ed è stato stabilito l’ordinamento gerarchico dei centri urbani
legato al localismo delle diocesi pontificie. Il risultato è quel particolare paesaggio
abitato marchigiano, tanto declamato quanto minacciato
dalle nuove dinamiche urbane.
Queste semplici considerazioni costituiscono
un’utile premessa per affrontare una riflessione sulle ingenti trasformazioni
che hanno interessato la realtà urbana anconetana, in particolare negli ultimi
trenta anni.
I fenomeni della dispersione urbana nel
territorio e della conurbazione, descritti fin dagli inizi del secolo scorso (2),
interessano in vari modi l’intero pianeta. Tuttavia sarebbe un grave errore
pensare che alla genericità dei processi di sviluppo delle città corrisponda
l’uguaglianza delle configurazioni, anche considerando i soli aspetti
organizzativi e funzionali.
Sebbene la civiltà mercantile veda
sostanzialmente il territorio come risorsa fondiaria frazionabile, ideale supporto
indifferenziato a disposizione di un’urbanizzazione teoricamente illimitata, in
realtà ogni territorio mostra una sua evidente fisionomia che condiziona, se
non altro, le modalità con cui l’occupazione del suolo si afferma.
Spesso si parla della realtà anconetana in
evoluzione come di una “città diffusa”, utilizzando un termine usato da
Francesco Indovina per descrivere le recenti trasformazioni del nord-est
italiano (3).
In effetti, per chi ha presente la realtà della
pianura veneta e lombarda è facile riconoscere alcune analogie con l’effetto di
spaesamento che si avverte nelle nostre aree artigianali di recente
urbanizzazione.
Tuttavia sono riconoscibili anche molte
differenze che impediscono di assimilare il paesaggio urbano marchigiano con
quello padano-veneto. Tali differenze possono essere descritte attraverso una
rilettura dei passaggi che hanno portato alla costruzione di quel continuum
urbano che collega Osimo stazione, Ancona, Falconara, Chiaravalle e Jesi, e che
chiamiamo “sistema urbano di Ancona”.
Nella struttura insediativa, reticolare e
gerarchizzata, del territorio rurale ottocentesco, già diverso in origine da
quello veneto, l’arrivo della ferrovia induce la nascita o il rafforzamento di
insediamenti costieri e vallivi assieme alla costruzione di fabbriche ed
attività produttive. Si tratta pur sempre di insediamenti compatti basati su
una chiara distinzione città-campagna.
I primi accenni ad una dimensione diffusiva
della città si hanno nel secondo dopoguerra, prima con la generazione di
quartieri ancora compatti ma collocati su assi di conurbazione, come nel caso
di Torrette e Collemarino, poi con l’avvio di una processo di uscita dalle
città di maggiori dimensioni (Ancona e Jesi) verso le colline, per la
costruzione di villette mono-bifamiliari.
L’occupazione dispersa del territorio agricolo
tuttavia è un fenomeno limitato e secondario rispetto ad una espansione
generalizzata delle forme urbane dense. La pre-esistenza di un sistema
insediativo policentrico nel territorio rurale ha fatto sì che il fenomeno di
uscita dalle città, già a partire dagli anni settanta ed anche per effetto del
terremoto, si esprimesse in un incremento dei piccoli centri esistenti, nella
creazione di altrettante piccole aree artigianali, nella edificazione di nuove
abitazioni accanto alle case coloniche che, pur costituendo un particolare
fenomeno di dequalificazione del paesaggio, hanno avuto se non altro il merito
di aver
limitato l’abbandono delle campagne.
La nebulizzazione
insediativa, tipica del fenomeno padano, è stata frenata anche da una
politica di governo del territorio e da una cultura della pianificazione che
hanno privilegiato la costruzione di nuovi insediamenti di iniziativa pubblica,
caratterizzati da grandi dimensioni, forma urbana definita, specializzazione
funzionale.
Negli anni 60 vengono realizzate le ZIPA – zone produttive
del porto di Ancona e di Jesi. I piani PEEP, a loro volta, hanno ancorato
l’espansione residenziale alle forme urbane esistenti.
Successivamente, Il PPAR e l’avvento delle
politiche ambientali hanno contribuito in modo decisivo a limitare i fenomeni
di conurbazione e intasamento.
L’incidenza delle scelte della politica locale -
i fattori endogeni –
che segna i primi decenni del secondo dopoguerra
viene progressivamente sminuita e sostituita
dall’influsso di scelte operate all’esterno del
sistema locale - i fattori esogeni – ed
i nuovi assetti insediativi sembrano spesso
derivare dal combinarsi
casuale di queste due forze. Si consideri ad
esempio come l’autostrada sia stata realizzata quando il processo di
industrializzazione nella vallesina era stato già impostato, con la ZIPA e l’ampliamento
della raffineria API.
Ciò ha contribuito decisamente a determinare l’anomalia
del casello di Ancona Nord, inserito ancora oggi in un intorno sostanzialemente
“vuoto”, ben diverso rispetto a tutti i caselli autostradali della fascia
adriatica attorno ai quali sono nate, per lo più in modo disordinato, aree
produttive e/o terziarie.
Casualità o coincidenze che hanno legato la
scelta di Ancona per uno sviluppo a sud all’evento della grande frana ed
all’entrata in funzione della variante alla S.S.16.
Lo stesso sviluppo a sud tuttavia ha subìto
nuovi condizionamenti dall’esterno. L’incremento del flusso dei T.I.R. nel
traffico portuale, dovuto a scelte logistiche operate da armatori greci, ha
portato a preferire la realizzazione di piattaforme logistiche (interporto) a
nord dove contemporaneamente cresceva anche il movimento aeroportuale. Ciò ha determinato
un improvviso ripensamento sulla collocazione della viabilità in uscita dal
Porto, con l’abbandono dell’asse attrezzato su cui era basata l’intera
costruzione del Piano Regolatore di Ancona.
Nello spazio urbano la specializzazione
funzionale interessa parti di città e luoghi più che le vecchie “zone omogenee”,
e si manifestano processi sempre più rapidi di trasformazione e sostituzione,
alla nascita di nuove centralità de-gerarchizzate.
Le vecchie attività produttive e di servizio
dislocate lungo la ferrovia sono dismesse e riconvertite ad usi urbani, la
parte sud di Ancona si specializza in polo commerciale, la Zipa di Jesi cresce
come polo produttivo integrato alla città, per la raffineria Api si parla di
polo energetico, per l’area di Ancona nord-aeroporto di centro affari e
servizi. Per la Zipa di Ancona si parla di riconversione a servizio del Porto mentre
l’intera area terziaria delle Palombare sarà trasformata in spazio residenziale.
Lo scenario del sistema urbano di Ancona è
quindi molto diverso dalla città diffusa descritta da Indovina, e per certi
aspetti più maturo.
In realtà, aspetti che sembrano appartenere ad
una evoluzione rispetto alla sprawltown ,
verso una fisionomia della città contemporanea individuata con il nome di
città-diramata o città-rete, convivono però
con aspetti tipici della città diffusa. Il
sistema conserva la riconoscibilità dei singoli insediamenti e delle trame di
formazione storica del territorio; mantiene una elevata integrazione con lo scenario
rurale e con la geografia.
E’ presente un elevato grado di
infrastrutturazione così come di dotazione di servizi, ancorati ai centri di antica
formazione ed alle nuove centralità. I concetti di zona omogenea e di gerarchia
non sono più utili a comprendere il nuovo scenario urbano , emergono quelli di parte
e di porosità.
Appaiono quindi ridotti gli aspetti negativi propri delle periferie
monofunzionali. Si individuano nuovi elementi a scala di città-territorio, come
il parco fluviale; si parla di una linea di trasporto metropolitana e si guarda
a nuove possibili integrazioni tra le centralità urbane ed i nodi delle reti di
trasporto.
Accanto a questi aspetti innovativi vivono però recessioni
tipiche delle sprawltown: i
poli dei servizi escono solo in parte dalla centralità di Ancona e restano
nell’ambito del territorio comunale, come l’università, il polo ospedaliero, il
polo megacommerciale, il polo sportivo. Ciò determina un elevato livello di
pendolarismo ed un altrettanto elevato uso dell’auto. Più che una carenza di infrastrutture
è una cattiva organizzazione di sistema a determinare pesanti effetti di
congestione. Le conseguenze sull’ambiente e sulla qualità dello spazio urbano
sono evidenti in termini di inquinamento e di continuo spasmodico tentativo di
ri-organizzazione, tanto che i cantieri aperti sono diventati ormai una costante
nell’immagine della città.
I più recenti interventi a scala urbana si caratterizzano
per la mancanza di caratterizzazione, estendendo la dimensione dello
spaesamento. La presenza di poli industriali a rischio in aree ancora pensate
come periferiche, ma in realtà di vitale importanza nel sistema urbano di
Ancona, ha portato questo territorio a conquistare il non ambìto primato di “Area
ad elevato rischio di crisi ambientale”.
Per questo Ancona ci appare oggi come una città
sospesa tra accenni di una nuova identificazione e
smarrimento. Ma se i percorsi che
portano allo smarrimento della città
sono noti, c’è da chiedersi se esista la possibilità
che la città si ri-conosca in una nuova fisionomia.
Il tentativo di dare risposta a questa domanda
impone altri interrogativi.
Quale coscienza si ha oggi del concetto di struttura
urbana? Quanto gli aspetti potenzialmente
“strutturanti” sono effetto di scelte o di casualità?
Sono il risultato di una qualche progettualità che
guida complessivamente le azioni o sono il retaggio
di qualcosa di preesistente e della forza del locus
che sostiene processi
frammentari e destrutturanti? Che
consapevolezza si ha della nuova dimensione di città
che chiamiamo “sistema urbano di Ancona”?
Il sistema
urbano di Ancona: in nero gli insediamenti e la viabilità al 1950, in grigio le
espansioni al 2000 ed i nuovi assi stradali.
I
numeri evidenziano le nuove centralità a scala urbana
Verso
una città flessibile
La
crisi, intesa come transizione, che mostra il sistema urbano di Ancona è comune
all’intero territorio medio-adriatico.
L’affermazione
di sistemi urbani locali come addensamenti nella
megalopoli adriatica evidenzia una mutazione in atto nella nebulosa urbana
costiera. Più che di città costiera si deve ormai parlare di una catena di
sistemi urbani locali (Pesaro valle del foglia, Ancona valle dell’Esino, basso
Musone, Fermo - Porto S.Elpidio, …)
In
questo contesto, il sistema urbano di Ancona tende a caratterizzarsi sempre più
come luogo di servizi per la macro-regione Marche-Umbria-Abruzzo.
Il
ruolo strategico del terziario, riconosciuto dagli operatori del settore (basti
pensare a Carrefour, all’Ikea, alla domanda di spazi nell’Interporto), la presenza
del porto e dell’aeroporto propongono il sistema di Ancona come interfaccia
con la dimensione extraregionale.
Ancona,
nella sua nuova dimensione, ritrova così la sua singolarità, il suo essere
emergenza nel territorio. Ciò tuttavia espone il sistema ad una sempre maggiore
dipendenza dall’esterno. L’ incertezza e la volubilità dei fenomeni che coinvolgono
gli elementi e le parti del sistema urbano di Ancona vanno assunti come
costante.
Ciò
che tradizionalmente individua la “struttura” funzionale del territorio, qui
intesa come insieme di strutture di servizio e addensatori di attività, cambia posizione
e peso. I diversi elementi strutturali possono scomparire improvvisamente o
altrettanto improvvisamente essere creati.
Emerge
quindi l’importanza attribuita al concetto di infrastruttura come condizione
che rende possibile la
mutevole
esistenza di elementi strutturali e centralità. Mentre nel territorio della
città densa era l’importanza gerarchica delle strutture a determinare l’ispessimento
delle infra-strutture viarie oggi il rapporto è mutato profondamente.
La
disponibilità di vie di comunicazione, in quanto asseconda il formarsi ed il
modificarsi delle centralità del territorio, influisce direttamente sulla sua strutturazione.
Sbagliato è tuttavia credere, come accade in recenti operazioni di
programmazione come la
Quadrilatero, che l’infrastruttura si rapporti alla
strutturazione del territorio secondo un principio di causa-effetto e quindi da
essa dipenda lo sviluppo di un sistema locale.
Ma
certamente la presenza di buone infrastrutture garantisce quella flessibilità
che sembra essere il paradigma della città estesa contemporanea e con
essa la “giusta distanza” tra i diversi elementi e le diverse funzioni che la
compongono (4).
Avere
buone infrastrutture non significa però avere molte infrastrutture.
Ancona
ha un alto grado di infrastrutturazione ma non ha buone infrastrutture.
La
vecchia logica secondo cui la struttura determina la dimensione dell’infrastruttura,
in una visione frammentata del territorio, induce ancora a seguire il criterio
per cui ogni elemento visto come strutturale debba avere un suo collegamento
viario adeguato al flusso richiesto. Questo è il criterio che sostiene l’uscita
dal Porto come strada dedicata, o
che determina la soluzione del by-pass Api a servizio dell’interporto, o il
nuovo casello autostradale di Gabella per servire il polo energetico della
stessa raffineria Api.
Lo
scenario futuro come somma di azioni frammentarie
Se
questo è il modo con cui si affronterà la flessibilità del sistema, con Ancona
che si vede centro gerarchico in antagonismo con i nuovi determinismi locali,
il territorio sarà rapidamente appesantito da un groviglio di infrastrutture,
insediamenti incoerenti e ritardi che ne determinerà il blocco e il declino.
Buone
infrastrutture sono invece quelle che permettono di servire i luoghi e le parti
in modo che l’organizzazione del sistema urbano funzioni indipendentemente dal
variare dei singoli elementi, dalla estinzione di alcuni o dalla nascita di
altri.
Il
sistema urbano contemporaneo assomiglia per certi versi ad un sistema
informatizzato complesso in quanto è parte di una rete ma deve anche avere una sua
architettura di sistema.
La
città frammentata, la sprawltown priva
di forma – teorizzata dall’urbanistica della deregulation – che vive
dell’espansione e scarta ciò che non è più funzionale non può garantire questa
architettura flessibile.
I
tentativi spasmodici di dare senso al non senso,di dare luogo al non-luogo (5) vedendo
nella “semplice presa di coscienza dello stato delle cose un obiettivo; persino
un obiettivo estetico” (6) cercano di nascondere
l’insipienza dell’urbanistica.
Pensare
la città flessibile significa pensare una nuova struttura
urbana, per quanto diversa da quella rigida di tipo tradizionale, e
inevitabilmente, una forma urbana.
L’idea
cara ai paesaggisti per cui tutto è struttura deve essere uno dei fondamenti su
cui costruire una nuova visione del territorio. La città policentrica, la città
delle reti non è infatti concepibile come semplice teoria di luoghi centrali e vie
di comunicazione.
Come
afferma Gambino “è il territorio storico nella sua globalità,con le sue reti
organizzative, le sue geometrie latenti, i suoi palinsesti paesistici e il suo articolato
patrimonio culturale a costituire il teatro dei processi urbani contemporanei” (7).
La
buona infrastruttura diviene la direttrice essenziale, coerente con la
fisionomia del territorio, che distribuisce i luoghi e le porzioni della città garantendole
flessibilità. Come tale, l’infrastruttura viaria non risponde soltanto al nuovo
concetto di “rete” da tempo riconosciuto, ma è anche elemento portante nel disegno
del territorio.
Reti,
parti, elementi, pieni-vuoti, relazioni, sono i concetti attraverso i quali
poter leggere l’identità del sistema e dei luoghi della città contemporanea.
Voglia
di città
Il
fenomeno della riscoperta della città che sta interessando l’Europa è legato a
diversi fattori.
Se
occorre evidenziare come la fuga dalla città nel centro-nord Europa – processo
volontario sulla spinta del modello culturale antiurbano della città-giardino –
ha origini e forme molto diverse dall’analogo processo avvenuto in Italia, dove
i cittadini sembrano essere stati forzati ad allontanarsi da una città sempre meno
efficiente e riconoscibile, va segnalato come tra le concause di questo “ritorno”
alla città è il raggiungimento di una nuova efficienza dovuta anche
all’introduzione delle nuove tecniche di trasporto e di comunicazione.
La città
si afferma in quanto funziona;
non è quindi un’affermarsi di tipo culturale né
il semplice manifestarsi di una tendenza naturale definita
a partire da Aristotele (8).
Tuttavia
la città che funziona viene desiderata come luogo in cui abitare nella misura
in cui favorisce l’affermarsi della tendenza naturale e di un orizzonte culturale.
La
metropolitana consente di spostarsi velocemente ed avere meno auto, aree verdi
tranquille centri storici che rivivono come luoghi della cultura. E questo è
ben altra cosa che immaginare una estetica delle periferie e delle
infrastrutture.
Le
rivolte delle banlieues francesi
evidenziano come l’apparato funzionale urbano sia uno strumento e non un fine. Prende
forza invece l’idea della città come luogo dell’integrazione tra spazio urbano
e rurale, tra culture, tra funzioni, tra diverse velocità d’uso e di percorrenza.
Su queste basi possiamo ricercare archetipi e scenari
della città policentrica contemporanea, non certo modelli figurativi.
L’orizzonte
di senso non è necessariamente un “compiuto”, ma è la città in-finita.
La
città non può più essere autoreferenziale. Per trovare il senso della nuova
dimensione urbana è indispensabile “ricercare, ritrovare, riscoprire, il principio
unitario che governa le opere dell’uomo e quelle della natura” (9).
Ed
infatti alcuni aspetti riconoscibili di questa nuova forma urbana rimandano
alle figurazioni della ville radieuse
o del plan obus di
Le Corbusier. La città a più dimensioni, la città disegnata attraverso la
sintesi di pochi elementi (la viabilità, le parti insediative formalmente
riconoscibili, i poli di servizio) che si integrano formalmente alle forme della
terra (il fiume, le colline , la linea di costa), sembra svelarsi solo ora,
dopo settanta anni.
Una
nuova idea della città che sostituisce, senza cancellarla fisicamente, la città
tradizionale entrata in crisi con la rivoluzione industriale. In mezzo, la
noncittà, il non-luogo.
E
così come l’odierna urbanistica appare l’espressione della società del consumo
illimitato, questa nuova idea di città appare espressione di una società che,
anche per difendersi dagli effetti della globalizzazione, fa proprio il
principio della sostenibilità e dell’identità locale.
L’architettura
della città anconetana
“La
ricerca della sua direttrice di sviluppo ci conduce infatti alla via d’acqua,
alla strada e alla ferrovia; il percorso razionale che qui cerchiamo di
individuare dovrà intersecare i più antichi tracciati e coincidere con essi,
giacchè le strade della storia non sono che prodotti della geografia” (10).
E’
la descrizione che Le Corbusier fa della sua città industriale lineare, fondata
anche sul legame con il territorio rurale in cui si distende. Ma è anche, se vogliamo,
la descrizione della vallesina e più in generale all’intero sistema urbano di
Ancona.
Le
Corbusier: schemi del plan obus per
Algeri e della città industriale lineare
In
base alle considerazione esposte nei punti precedenti, il sistema anconetano si
mostra oggi come una città contemporanea dalle grandi potenzialità, così come
emerge da una sintetica descrizione in termini di forma, funzione,
flessibilità.
La
presenza di assi infrastrutturali differenziati disposti in modo ordinato e
coerente alle direttrici naturali del fiume e della costa; il loro rapporto con
i luoghi, le emergenze, gli elementi del sistema urbano; le relazioni con il
territorio della storia e col paesaggio rurale, consentono di pensare Ancona come
città flessibile.
Ogni
parte della città, ogni elemento macrofunzionale del sistema ha un raccordo con
le direttrici viarie e si interfaccia con la campagna, o con il mare o con il
parco territoriale. Ogni parte ed ogni elemento può svilupparsi, spegnersi,
mutare relazioni, senza compromettere il funzionamento e la coerenza del
sistema.
La
metropolitana di superficie con una sola linea serve l’intera città di 200.000
abitanti.
Le
parti del territorio sono sottolineate nella loro identità e nel significato
che assumono nel continuum urbano.
Due
nodi di grande interscambio con le reti internazionali, ad Ancona nord e ad
Ancona sud, sono sufficienti e ottimali nel sistema ed assolvono alla funzione
di nuove centralità per il terziario evoluto.
Un
nuovo ingresso alla città storica di Ancona nell’area del Piano, servito dalla
stessa strada che accede al porto, salva il litorale e Torrette.
L’Esino
è anche il grande parco urbano e la costa, liberata dal traffico, è restituita
alla gioia degli abitanti.
Nuove
centralità sorgeranno lungo la città lineare.
Questa
è l’Ancona possibile, ottenibile con pochi saggi investimenti. Ma la Ancona del futuro, dove ci
troveremo a vivere, sarà come l’intera società locale riuscirà a pensarla. E’
pertanto di assoluta importanza che la società
locale
si dimostri capace di comprendere la situazione e i tempi. Che sappia vedere la
città e la terra con occhi nuovi.
Se
le spinte all’occupazione indiscriminata di suolo, proprie della deregulation
imperante, saranno rapidamente abbandonate, in quanto appartenenti ad una
concezione ormai superata ed inadeguata a rispondere alle nuove condizioni
economiche, sociali e culturali, potremo con fiducia guardare ad un futuro per
il sistema urbano di Ancona.
Continueremo
a chiamarla Ancona?
Senza
negare il policentrismo funzionale e le identità locali, la forza dell’αγκον,
della sua forma naturale, continuerà a caratterizzare questa parte di
territorio.
Ancona
può riconoscersi come sistema urbano lineare, ordinato sulle direttrici vallive
e sorretto da una sola linea metropolitana
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1 Aldo
Rossi, l’architettura della città,
Marsilio, Padova; CittàStudiEdizioni, Torino 1995
2 Patrick Geddes, Cities in Evolution. An Introduction to the Town
Planning Movement and to the Study of Civics, London
1915 (tr.
it. Città in
evoluzione, Il Saggiatore, Milano 1970)
3 Francesco Indovina, La
città diffusa, Iuav DAEST Venezia
1990
4
B.Secchi, La
città europea contemporanea e il suo progetto, Milano,
Facoltà di Architettura 2005
5 Marc Augè, Non
luoghi, Eleuthera, Milano, 1993.
6 tratto da un articolo di V.Gregotti
pubblicato su “la Repubblica”
il 27/03/04 a commento del saggio di R. Ingersoll, Sprawltown,
Maltemi Babele, Roma, 2004
7 Roberto Gambino, Conservare
Innovare, UTET Torino 1997
8 “gli uomini si radunano
nelle città allo scopo di vivere: essi rimangono radunati per vivere la buona
vita”
9
Le Corbusier, Maniera
di pensare l’urbanistica, Laterza, Bari, 1965
10
Le Corbusier , ibidem
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