domenica 12 agosto 2012

Il limen e il discorso di Ippòdamo


L’attività che comporta l’ideazione e la condivisione di una organizzazione dello spazio dell’abitare è una delle arti più antiche dell’umanità. Possiamo anzi affermare che essa nasce insieme alla nascita delle prime comunità degli homo sapiens assumendo un carattere identificativo della specie.
Con la formazione delle città, soprattutto delle nuove città di fondazione, il disegno dello spazio urbano si fa teoria e assume la sostanza di espressione culturale universale.
Dal reticolo di Ippòdamo, alle moderne configurazioni di Adriano, alle geometrie ideali rinascimentali fino alla visione territoriale di Le Corbusier, all’evoluzione della società umana fa riscontro l’evoluzione del disegno urbano.
A partire dall’affermarsi della civiltà industriale, già alla fine del XVIII* secolo, si afferma una concezione dello spazio abitato nuova e diversa. Se fino ad allora il valore di mercato delle aree era una componente del modo con cui la città si costruiva rispettando comunque una disegno, espressione di una idea, la civiltà industriale fa del valore di mercato l’essenza e la regola dell’organizzazione dello spazio. Il suolo, il territorio, non sono più il supporto e l’intorno della città, partecipi attivi di uno scenario in cui si rappresenta la vita della comunità, ma divengono beni economici frazionabili, acquistabili, disponibili all’uso.
Nasce così l’urbanistica, disciplina fondata essenzialmente sul valore di mercato dei suoli e volta a regolare gli attriti tra le diverse proprietà, a stabilire i diritti d’uso, a tutelare la dimensione pubblica dall’esuberante dominio della sfera privata.
I tentativi di collegare l’urbanistica al disegno della città di tradizione storica si sono ripetuti in modo assiduo negli ultimi due secoli dando vita anche ad esperienze interessanti de innovative, ma alla fine abbiamo assistito alla perentoria applicazione dell’urbanistica come negazione dell’idea di città e liberazione da un qualsivoglia disegno.
Sono le logiche di mercato, l’affermarsi di piccole e grandi speculazioni immobiliari, l’occasionalità del profitto dato dalla rendita fondiaria a  stabilire come la città cresce, si espande ovvero è abbandonata al degrado.
La ricerca dell’unità architettura-urbanistica perseguita da Giuseppe Samonà  (l’urbanistica e l’avvenire della città negli stati europei, 1959) si è dimostrata essere una chimera. Il riconoscimento della città dispersa ( o città diffusa) come immagine della fisionomia urbana contemporanea colloca il problema della forma nell’ambito dell’organizzazione funzionale degli spazi e delle reti, senza alcun limite posto in un ipotetico spazio incontrollato, pura riserva disponibile.

L’immagine della città-territorio, delle infinite periferie, dell’omologazione-negazione dei luoghi è davvero l’espressione della società mercantile, fondata sull’idea di una economia in perpetua crescita, foriera di consumi e di esigenze senza limiti. Una società bulimica che più divora più prova appetito.

Chi oggi, nell’ambito della disciplina urbanistica, osa porre il problema della forma urbis, viene deriso come un povero pazzo uscito dalle polveri della storia. Il dibattito sulle città usa termini che nulla hanno a che fare con l’architettura: dispositivi normativi, indici edilizi, parametri, standard, negoziazione, perequazione, … si discute sulle tecniche e sugli strumenti di dominio della città, non sulla città.  Gli architetti sono ormai ridotti a vergognarsi di parlare di architettura alla scala della città

Vedere in modo diverso la città, recuperandone la dimensione culturale in continuità con la storia del disegno urbano, diviene involontariamente ma inevitabilmente una visione politica.
La critica verso un’urbanistica ridotta a mero strumento atto a regolare gli interessi economici nel territorio, diviene critica alla società mercantile stessa.

In questi ultimi anni tuttavia, con il manifestarsi della crisi economica planetaria, stiamo assistendo al crollo della concezione mercantile dell’economia e della società.  L’idea dello sviluppo illimitato, della capacità del mercato di autoregolarsi che avevano fatto del liberismo una fede, perde consensi a livello popolare.
I cambiamenti climatici indotti da uno sviluppo scellerato sono lì a segnare concretamente l’esistenza di limiti fisici, di soglie, che condizionano la nostra capacità di azione.
Oramai gli architetti, come le altre figure intellettuali, compresi gli stessi urbanisti, hanno assunto nuovi riferimenti culturali, come l’idea della “sostenibilità” delle modificazioni indotte, della compatibilità ambientale, dell’ecologia.
Contenuti che ci parlano, in antitesi con la visone mercantile di mondo, di limiti, di legami, di rapporti condizionanti di cui dobbiamo tenere conto nel nostro pensare ed operare.
Sotto la spinta del movimento ambientalista, siamo ora tutti concordi nella necessità di limitare il consumo di suolo ed aprire una stagione in cui le città, anziché espandersi, si riqualificano.
La legge 22/11 della regione Marche assume questa necessità come prospettiva del fare urbanistica per i prossimi dieci anni almeno.
Tuttavia, percorrendo l’articolato della legge, il linguaggio ed i contenuti sono ancora quelli propri dell’urbanistica:  indici edilizi, perequazioni, valori di mercato, plusvalenze. 
Della città non si parla. Non si parla in termini di architettura.
La riqualificazione si riduce al conteggio degli standards, all’introduzione di premi per una bioedilizia anch’essa vista come insieme di nuovi e costosi prodotti di mercato da utilizzare nelle costruzioni.

Eppure se pensiamo ad una città che non cresce, non semplicemente per effetto della crisi ma perché è giusto porre un limite allo spazio edificato, stiamo introducendo già il problema della “forma” individuata per effetto di questo limite.
Non si tratta ovviamente di inseguire città ideali, ma di capire che la città è frutto di un insieme di relazioni al suo interno e verso l’esterno, che ne disegnano i caratteri riconoscibili, che ci permettono cioè di riconoscerne l’identità.
Su questi temi: il limen urbano, la riconoscibilità e l’identità delle città, le forme che assumono le particolari relazioni tra la morfologia del territorio e il disporsi delle trame e dei tessuti insediativi, è giunto il tempo di riaprire una vasta riflessione.
Smettiamola di vergognarci di parlare di architettura delle città e lasciamo gli urbanisti ai loro uffici da ragionieri.
Riprendiamo il discorso di Ippòdamo

Carlo Brunelli


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