L’attività che comporta
l’ideazione e la condivisione di una organizzazione dello spazio dell’abitare è
una delle arti più antiche
dell’umanità. Possiamo anzi affermare che essa nasce insieme alla nascita delle
prime comunità degli homo sapiens
assumendo un carattere identificativo della specie.
Con la formazione delle città,
soprattutto delle nuove città di fondazione, il disegno dello spazio urbano si
fa teoria e assume la sostanza di espressione culturale universale.
Dal reticolo di Ippòdamo, alle
moderne configurazioni di Adriano, alle geometrie ideali rinascimentali fino alla
visione territoriale di Le Corbusier, all’evoluzione della società umana fa
riscontro l’evoluzione del disegno urbano.
A partire dall’affermarsi della
civiltà industriale, già alla fine del XVIII* secolo, si afferma una concezione
dello spazio abitato nuova e diversa. Se fino ad allora il valore di mercato
delle aree era una componente del modo con cui la città si costruiva
rispettando comunque una disegno,
espressione di una idea, la civiltà industriale fa del valore di mercato
l’essenza e la regola dell’organizzazione dello spazio. Il suolo, il
territorio, non sono più il supporto e l’intorno della città, partecipi attivi
di uno scenario in cui si rappresenta la vita della comunità, ma divengono beni
economici frazionabili, acquistabili, disponibili all’uso.
Nasce così l’urbanistica, disciplina fondata essenzialmente sul valore di
mercato dei suoli e volta a regolare gli attriti tra le diverse proprietà, a
stabilire i diritti d’uso, a tutelare la dimensione pubblica dall’esuberante
dominio della sfera privata.
I tentativi di collegare
l’urbanistica al disegno della città di tradizione storica si sono ripetuti in
modo assiduo negli ultimi due secoli dando vita anche ad esperienze interessanti
de innovative, ma alla fine abbiamo assistito alla perentoria applicazione dell’urbanistica
come negazione dell’idea di città e liberazione da un qualsivoglia disegno.
Sono le logiche di mercato,
l’affermarsi di piccole e grandi speculazioni immobiliari, l’occasionalità del
profitto dato dalla rendita fondiaria a
stabilire come la città cresce, si espande ovvero è abbandonata al
degrado.
La ricerca dell’unità architettura-urbanistica perseguita
da Giuseppe Samonà (l’urbanistica e
l’avvenire della città negli stati europei, 1959) si è dimostrata essere una
chimera. Il riconoscimento della città dispersa ( o città diffusa) come
immagine della fisionomia urbana contemporanea colloca il problema della forma
nell’ambito dell’organizzazione funzionale degli spazi e delle reti, senza
alcun limite posto in un ipotetico spazio incontrollato, pura riserva
disponibile.
L’immagine della città-territorio, delle infinite
periferie, dell’omologazione-negazione dei luoghi è davvero l’espressione della
società mercantile, fondata sull’idea di una economia in perpetua crescita,
foriera di consumi e di esigenze senza limiti. Una società bulimica che più
divora più prova appetito.
Chi oggi, nell’ambito della disciplina urbanistica, osa
porre il problema della forma urbis,
viene deriso come un povero pazzo uscito dalle polveri della storia. Il
dibattito sulle città usa termini che nulla hanno a che fare con
l’architettura: dispositivi normativi, indici edilizi, parametri, standard,
negoziazione, perequazione, … si discute sulle tecniche e sugli strumenti di
dominio della città, non sulla città.
Gli architetti sono ormai ridotti a vergognarsi di parlare di
architettura alla scala della città
Vedere in modo diverso la città, recuperandone la
dimensione culturale in continuità con la storia del disegno urbano, diviene
involontariamente ma inevitabilmente una visione politica.
La critica verso un’urbanistica ridotta a mero strumento
atto a regolare gli interessi economici nel territorio, diviene critica alla
società mercantile stessa.
In questi ultimi anni tuttavia, con il manifestarsi della
crisi economica planetaria, stiamo assistendo al crollo della concezione
mercantile dell’economia e della società.
L’idea dello sviluppo illimitato, della capacità del mercato di
autoregolarsi che avevano fatto del liberismo una fede, perde consensi a
livello popolare.
I cambiamenti climatici indotti da uno sviluppo scellerato
sono lì a segnare concretamente l’esistenza di limiti fisici, di soglie, che
condizionano la nostra capacità di azione.
Oramai gli architetti, come le altre figure intellettuali,
compresi gli stessi urbanisti, hanno assunto nuovi riferimenti culturali, come
l’idea della “sostenibilità” delle modificazioni indotte, della compatibilità
ambientale, dell’ecologia.
Contenuti che ci parlano, in antitesi con la visone
mercantile di mondo, di limiti, di legami, di rapporti condizionanti di cui
dobbiamo tenere conto nel nostro pensare ed operare.
Sotto la spinta del movimento ambientalista, siamo ora
tutti concordi nella necessità di limitare il consumo di suolo ed aprire una
stagione in cui le città, anziché espandersi, si riqualificano.
La legge 22/11 della regione Marche assume questa
necessità come prospettiva del fare urbanistica per i prossimi dieci anni
almeno.
Tuttavia, percorrendo l’articolato della legge, il
linguaggio ed i contenuti sono ancora quelli propri dell’urbanistica: indici edilizi, perequazioni, valori di
mercato, plusvalenze.
Della città non si parla. Non si parla in termini di
architettura.
La riqualificazione si riduce al conteggio degli
standards, all’introduzione di premi per una bioedilizia anch’essa vista come
insieme di nuovi e costosi prodotti di mercato da utilizzare nelle costruzioni.
Eppure se pensiamo ad una città che non cresce, non
semplicemente per effetto della crisi ma perché è giusto porre un limite allo spazio edificato, stiamo introducendo
già il problema della “forma” individuata per effetto di questo limite.
Non si tratta ovviamente di inseguire città ideali, ma di
capire che la città è frutto di un insieme di relazioni al suo interno e verso
l’esterno, che ne disegnano i caratteri riconoscibili, che ci permettono cioè
di riconoscerne l’identità.
Su questi temi: il limen
urbano, la riconoscibilità e l’identità delle città, le forme che assumono le
particolari relazioni tra la morfologia del territorio e il disporsi delle
trame e dei tessuti insediativi, è giunto il tempo di riaprire una vasta
riflessione.
Smettiamola di vergognarci di parlare di architettura
delle città e lasciamo gli urbanisti ai loro uffici da ragionieri.
Riprendiamo il discorso di Ippòdamo
Carlo Brunelli
Questo blog vuole
essere uno spazio di discussione aperto. Chiunque sia interessato a partecipare
può farlo sia commentando il post che inviando uno scritto all’indirizzo
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discrezione del responsabile del blog al fine di assicurare, in ogni caso, la
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