Dopo anni in cui abbiamo assistito al progressivo abbandono, da parte delle istituzioni pubbliche, della progettazione dell'assetto del territorio, fino a giungere a forme di delega a soggetti privati - come nel caso del Piano di Area Vasta dell'operazione Quadrilatero - o alla pratica di far fare i piani particolareggiati di iniziativa pubblica e le stesse varianti urbanistiche ai soggetti privati proponenti per poi "decorare" i documenti col timbro ufficiale del Comune, finalmente ecco una sentenza del Consiglio di Stato che riafferma i principi costituzionali inerenti il governo del territorio. Principi costituzionali, aggiornati alle mutate concezioni culturali ed all'evoluzione socio-economica avvenuta in questi 60 anni, che sanciscono come il governo del terrtorio sia funzione pubblica non delegabile ad altri e come l'urbanistica non possa ridursi alle mere problematiche del dove e come costruire garantendo il diritto privato, ma debba gestire anche e soprattutto l'insieme degli aspetti ambientali, ecologici, paesaggistici, culturali e socioeconomici di un territorio.
Si tratta di un ponto di partenza formidabile per reimpostare la pianificazione urbanistica a livello comunale e intercomunale.
A proposito del PRG di Cortina, e precisamente alla scelta
operata dal piano di escludere in via generale una nuova edificazione
residenziale nel territorio comunale, salvo la circoscritta deroga per
nuove edificazioni da eseguirsi sulle sole aree di proprietà comunale e
regoliera e destinate ad abitazione per i residenti, così infatti si pronuncia
il Consiglio di Stato con sentenza n. 2710/2012:
"Il
Collegio osserva che il potere di pianificazione urbanistica del
territorio – la cui attribuzione e conformazione normativa è
costituzionalmente conferita alla potestà legislativa concorrente dello
Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui
esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori
livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune – non è limitato alla
individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed
in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse. Al
contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso
in relazione ad un concetto di urbanistica che non è limitato solo alla
disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai
tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che,
per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche
finalità economico – sociali della comunità locale (non in contrasto ma
anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità
territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e
positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati.
Proprio
per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare
l’art. 117 della Costituzione per il tramite della legge cost. n.
3/2001, ha sostituito – al fine di individuare le materie rientranti
nella potestà legislativa concorrente Stato - Regioni - il termine
“urbanistica”, con la più onnicomprensiva espressione di “governo del
territorio”, certamente più aderente, contenutisticamente, alle finalità
di pianificazione che oggi devono ricomprendersi nel citato termine di
“urbanistica”. D’altra parte, già il legislatore ordinario (sia pure ai
fini della attribuzione di giurisdizione sulle relative controversie),
con l’art. 34, comma 2, d. lgs. 31 marzo 1998 n. 80, aveva affermato che
“la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del
territorio”. Tali finalità, per così dire “più complessive”
dell’urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono
peraltro desumibili fin dalla legge 17 agosto 1942 n. 1150, laddove essa
individua il contenuto della “disciplina urbanistica e dei suoi scopi”
(art. 1), non solo nell’”assetto ed incremento edilizio” dell’abitato,
ma anche nello “sviluppo urbanistico in genere nel territorio della
Repubblica”. In definitiva, l’urbanistica, ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano
giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie
connesse al iritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti
esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo.
Uno
sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli -
non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze di
abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi –, sia
di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della
salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze
economico – sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in
definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi
stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di
una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta - per
autorappresentazione ed autodeterminazione - dalla comunità medesima,
attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora ,
attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento
pianificatorio.
In definitiva, il potere di
pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse pubblico
all’ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle
diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile
abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.),
ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una
pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in
valori costituzionalmente garantiti. Ne consegue che, diversamente
opinando, e cioè nel senso di ritenere il potere di pianificazione
urbanistica limitato alla sola prima ipotesi, si priverebbe la pubblica
amministrazione di un essenziale strumento di realizzazione di valori
costituzionali, quali sono almeno quelli espressi dagli articoli 9,
comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost.. D’altra parte, a
diversa conclusione non può giungersi nemmeno sostenendo che, attraverso
la considerazione di esigenze diverse, l’amministrazione finirebbe per
comprimere il contenuto stesso del diritto di proprietà, e lo stesso ius
aedificandi allo stesso connesso. Senza volere entrare in un dibattito
ampio ed ultratrentennale, che ha visto numerosi interventi della Corte
Costituzionale, occorre almeno ricordare come sia stato affermato che
nel nostro ordinamento non è individuabile un solo astratto diritto di
proprietà, dipendendo il contenuto dello stesso dalla natura intrinseca
del bene (sentenze nn. 55 e 56 del 1968).
La
Corte Costituzionale ha, in particolare, affermato, con sent. 9 maggio
1968 n. 55, che “senza dubbio la garanzia della proprietà privata è
condizionata, nel sistema della Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla
subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di
funzione sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed
utilità generale. Ciò con maggiore ampiezza e vigore di quanto è
stabilito dagli artt. 832 e 845 del Codice civile, i quali, per il
contenuto del diritto di proprietà fondiaria in particolare, richiamano,
rispettivamente, i limiti e gli obblighi stabiliti "dall'ordinamento
giuridico" e le regole particolari per scopi di pubblico interesse. . . .
Secondo i concetti, sempre più progredienti, di solidarietà sociale,
resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come
dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece
ritenerlo caratterizzato dall'attitudine di essere sottoposto nel suo
contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di
determinare”. Allo steso tempo, anche laddove la Corte Costituzionale ha
affermato l’inerenza dello ius aedificandi al diritto di proprietà (con
la nota sentenza 30 gennaio 1980 n. 5), essa ha precisato che “è
indubbiamente esatto che il sistema normativo attuato per disciplinare
l'edificabilità dei suoli demanda alla pubblica autorità ogni
determinazione sul se, sul come e anche sul quando . . . della
edificazione . . .”, di modo che se da ciò deriva che “il diritto di
edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che
comprendono la legittimazione a costruire . . . di esso sono stati
tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che
l'avente diritto può solo costruire entro limiti, anche temporali,
stabiliti dagli strumenti urbanistici”.
Ovviamente,
il potere di pianificazione urbanistica, a maggior ragione in
considerazione della sua ampia portata in relazione agli interessi
pubblici e privati coinvolti, così come ogni potere discrezionale, non è
sottratto al sindacato giurisdizionale, dovendo la pubblica
amministrazione – come ribadito dalla costante giurisprudenza del
giudice amministrativo – dare conto, sia pure con motivazione di
carattere generale, degli obiettivi che essa, attraverso lo strumento di
pianificazione, intende perseguire e, quindi, della coerenza delle
scelte in concreto effettuate con i detti obiettivi ed interessi
pubblici agli stessi immanenti".
Per quanto riguarda la realtà marchigiana occorre ora analizzare il livello di congruenza o di incongruenza tra questa sentenza e la proposta di revisione della Legge Urbanistica regionale già presentata in Giunta, anche in considerazione delle questioni che tale sentenza inevitabilmente apre relativamente, ad esempio, alle pratiche di vera partecipazione dei cittadini nei processi decisionali.
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