I porti erano luoghi particolari
di incontro, di infinite partenze ed arrivi, ma anche di libera espressione di sé
fuori dal controllo delle regole. Ognuno, anche senza identità o con identità di
comodo, poteva trovare un suo motivo di essere nel porto.
Anche il porto di Ancona era un
luogo simile, come appare nel film Ossessione di Visconti.
Lì ciò che altrove era illecito, come l’omosessualità, otteneva una sorta di affrancamento. Ognuno manifestava se stesso, liberamente , nel porto e poteva dare sfogo ai propri piaceri, anche se considerati dalla "morale pubblica" alla stregua piccole o grandi perversioni. Al porto era molto più facile che altrove trovare amore a pagamento.
Questa licenziosità del porto non
è più riscontrabile oggi, o almeno non lo è più in un ambito sociale definito.Lì ciò che altrove era illecito, come l’omosessualità, otteneva una sorta di affrancamento. Ognuno manifestava se stesso, liberamente , nel porto e poteva dare sfogo ai propri piaceri, anche se considerati dalla "morale pubblica" alla stregua piccole o grandi perversioni. Al porto era molto più facile che altrove trovare amore a pagamento.
Ma in fondo, nonostante lo svuotamento di genti, le barriere che dividono le banchine dalla città, i TIR e i traghetti che hanno sostituito il traffico di merci e di marinai, il porto rimane una sorta di luogo franco, dove le regole e i modi dello stare insieme delle cose lasciano spazio all’improvvisazione, alla iniziativa individuale che non deve rendere conto a nessuno, tanto meno ad una comunità che non c’è.
Se nella città siamo consapevoli della
necessità di rendere coerenti le diverse azioni, i diversi progetti, per
garantire una immagine urbana riconoscibile e organizzata, nel porto questa
consapevolezza si allenta e la necessità, seppure temporanea, dell’agente
marittimo, o dell’operatore portuale, domina su ogni tentativo di coordinamento.
Il porto appare come un ammasso
di cose temporanee e in movimento. Merci, navi, auto e camion parcheggiati, gru e silos. Serve spazio, e
dove c’è chi prima arriva se lo prende.
Con lo stesso atteggiamento si
affastellano le iniziative per l’ammodernamento, o l’abbellimento del porto.
Sono occasioni sporadiche,
dettate dall’esigenza dei croceristi, degli armatori greci o dalla possibilità di
acchiappare un qualche finanziamento.
Un meraviglioso kaos. Meraviglioso perchè vero. Meraviglioso perchè - in una società ancora perbenista e ipocrita, libera gli
istinti più indicibili e le voglie più nascoste nei manager come negli
architetti.
Se i manager possono trovare nel
porto la possibilità di esprimere la loro voglia di onnipotenza, trasformandosi
in ideologi ed artisti, esperti di tutto specie di quel senso artistico soppresso
in loro fin dall’infanzia per formazione
scolastica e professionale, gli architetti si sentono finalmente liberi di esprimere la loro vera natura: l'essere architetti. Una natura vissuta però come un vizio e una colpa, da dover esprimere in modo promiscuo, scevri da ogni
responsabilità civile. In modo da dare
finalmente sfogo agli istinti
primari propri degli architetti, quelli che si hanno solitamente in gioventù: primo di tutto la vanità, la ricerca spasmodica dell’occasione per
progettare l’opera che sia vista ed ammirata da tutti, seconda - e funzionale
alla prima - è l’attitudine a servire. Quel piacere di sottomettersi finalmente
al decisore forte, al committente unico, potente, riconosciuto, identificato
ostinatamente con il mecenate , il signore rinascimentale che amava contornarsi
di artisti e che pertanto accredita ufficialmente
come artista di corte chi lo serve, a prescindere dal risultato.
In questa nuova dimensione di
liceità portuale i nuovi Comandanti - dirigenti di enti o amministratori pubblici
o imprenditori marittimi - lanciano agli architetti i loro progetti perché diano
loro forma e gli architetti si gettano al lavoro producendo
carrellate di renderizzazioni di ardite
costruzioni scopiazzate da qualche rivista, o nascoste in un cassetto per l’occasione
giusta… purchè siano vestizioni alla moda, che facciano tendenza, che possano essere
a loro volta pubblicate sulle riviste patinate che illustrano il futuro accanto al volto compiaciuto degli artisti che lo anticipano.
Nulla resta delle sagge parole
che disse poco più di tre anni fa l’urbanista catalano Josep Acebillo, invitato a parlare del
porto di Ancona. Nulla di quel suo appello a lasciar perdere l’architettura in
questa fase per parlare prima del funzionamento del porto, della sua organizzazione,
de suo modo di rapportarsi alla città.
Regole, condizioni,
responsabilità che nessuno vuole nel porto, dove è così facile pagarsi l’amore
e soddisfare le voglie.
Nessuna voce così si alza per
richiamare gli architetti alla loro responsabilità, alla loro vera natura di “medici”
della città e dell’architettura, che li dovrebbe portare a mettere al primo
posto la salute del paziente e non l’importanza dell’operazione in funzione
della propria carriera.
Gli architetti si dovrebbero
rifiutare di farsi esecutori delle smanie di incompetenti amministratori e arroganti
manager, pretendendo di dare un
significato al proprio operare; di partecipare, con il proprio lavoro, ad un
progetto di città condiviso e giusto. Senza vergognarsi dell'architettura, senza accettare di doverla perseguire in condizioni di promiscuità.
Utopia la mia, lo so, Sogno, che diventa
grottesco in una città che vive dei propri incubi.
Feci due passi alcuni giorni fa,
e come spesso faccio, per andare a ri-ammirare il Lazzaretto.
Quel capolavoro di architettura disegnato da Vanvitelli e orrendamente deturpato dalle aggiunte ottocentesche per dare spazio ai magazzini di tabacchi…
In qualsiasi luogo al mondo l’opera d’arte sarebbe stata prima di tutto liberata dalla sporcizia, come si sono ripulite le figure disegnate da Michelangelo nella Cappella Sistina dagli sciocchi veli aggiunti per ordine degli oscurantisti vaticani.
In qualsiasi luogo al mondo, ma
non in Ancona e non nel Porto… dove la volumetria provoca più piacere della
bellezza e… alla fine ha più valore.
E allora il porto diviene uno
showroom per la felicità degli ebeti… ma
noi sappiamo che il porto è ben altra cosa….
“Eupalino magnificamente mi dipinse le costruzioni gigantesche che s’ammirano
nei porti. Esse avanzano nel mare; i bracci, d’un biancore assoluto e crudo,
circoscrivono bacini assopiti e, custodendone la calma, li conservano sicuri al
rigurgito delle galee riparate dalle scogliere irte e dalle dighe fragorose. (…)
Questi porti, diceva il mio amico, questi vasti porti che chiarità per lo
spirito: come si svolgono e come discendono verso il loro destino! Ma le
meraviglie proprie del mare, e la statuaria casuale delle rive, sono
liberamente offerte all’architetto dagli dèi. Tutto cospira all’effetto che
sulle anime producono questi nobili stabilimenti seminaturali: la presenza dell’orizzonte
puro, la nascita e il disparire d’una vela, l’emozione nel distacco dalla terra,
l’inizio dei perigli, la soglia sfavillante delle contrade sconosciute; (…)”.
“Eupalino” – Paul Valèry
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